Intervento per la celebrazione del 70° anniversario della morte di Antonio Gramsci (27 aprile 1937)

 

Congresso regionale pugliese del PdCI, Bari, 22 aprile 2007

 

 

C’è un legame forte tra Antonio Gramsci e la Puglia; un legame doloroso, come quello di aver ospitato nella casa penale di Turi uno dei più grandi uomini politici e intellettuali del XX secolo. Ma anche i legami dolorosi sono e possono diventare legami forti, intensi. Non c’era niente nel penitenziario di Turi di Bari che legittimasse il titolo di ‘casa penale di cura’: l’assistenza medica era pressoché inesistente, il vitto scarso e di pessima qualità, c’erano una sorveglianza e una censura abbastanza rigide, tutti i reclusi, politici e comuni insieme, erano disturbati dal passaggio notturno dei secondini che battevano ai ferri delle celle; e Gramsci, che già soffriva d’insonnia, qui aggravò le sue già precarie condizioni di salute.

Antonio Gramsci giunse a Turi il 19 luglio del 1928, ed aveva conosciuto già il carcere di Regina Coeli (isolamento assoluto), il confino di Ustica e il carcere di San Vittore. Era stato arrestato l’8 novembre del 1926, nonostante l’immunità parlamentare e condannato il 4 giugno 1928 dal tribunale speciale del fascismo a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni di reclusione. Fu la sua malattia, l’uricemia cronica, a destinarlo alla casa penale speciale di Turi, qui in Puglia, che lascerà solo il 19 novembre del 1933, seriamente compromesso nella sua fragile sanità fisica.

Eppure, fu proprio a Turi che Gramsci appuntò la maggior parte delle sue note in quaderni scritti in maniera fitta, quel capolavoro noto successivamente come i “Quaderni dal carcere”, che pur elaborati in maniera non organica, costituiscono uno dei lasciti storico-politici e filosofici di portata mondiale ed epocale.

Gramsci è stato un grande intellettuale, ma nel senso e nel significato che egli dava a quest’ espressione, non scisso dall’aggettivo “organico”, una delle più celebri categorie politiche concettuali che troviamo nella sua intera riflessione: in breve, per costruire il mondo nuovo, il mondo socialista, è necessaria la creazione di un nuovo tipo di intellettuale, organico, appunto, organico alla classe. 

[“Se il rapporto tra intellettuali e popolo-nazione, tra dirigenti e diretti, tra governanti e governati, è dato da un’adesione organica in cui il sentimento-passione diventa comprensione e quindi sapere, non meccanicamente, ma in modo vivente, solo allora il rapporto è di rappresentanza, e avviene lo scambio di elementi individuali tra governati e governanti, tra diretti e dirigenti, cioè si realizza la vita d’insieme che sola è la forza sociale, si crea il ‘blocco storico’” ] [Cosicchè essere colto, essere filosofo lo può chiunque voglia"]

Le suggestioni della sua riflessione sull’attalità sono grandissime e provengono da quella che viene chiamata l’’officina gramsciana’: categorie ermeneutiche, di interpretazione del reale, con sullo sfondo un problema in cui siamo tuttora implicati: la transizione, in occidente, dalla società capitalista e i processi della modernizzazione (o presunti tali) a una società autoregolata (il comunismo dell’autodeterminazione dei produttori, del proletariato e delle classi subalterne) in cui la modernizzazione non si coniughi più con lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Questo è una delle chiavi del ‘successo’ internazionale - studi e ricerche continue -  oltre l’Italia, che ha conosciuto invece periodi di oscuramento dell’analisi della sua opera e oggi, proprio nel nostro paese, una inquietante rimozione. E la ragione mi pare palese: Gramsci è stato un comunista, un comunista con una visione marxista e legata al leninismo e le operazioni ‘revisioniste’ che si tentano, definendolo ad esempio un’grande italiano’, hanno un respiro corto, proprio perché l’essere comunista è essere internazionalista, è combattere attivamente contro l’imperialismo e la guerra, spiegata con le contraddizioni del capitalismo nelle sue fasi di crisi mondiale e non nelle autorappresentazioni tutte ideologiche, marxianamente di ‘falsa coscienza’. O pensiamo che Gramsci avrebbe spiegato, oggi, le guerre americane contro l’Iran, contro l’Afganistan, con la necessità di esportare la democrazia? Per un comunista, i significanti forti rimandano a forti significati: anche le parole sono pietre.

Il linguaggio è dominio ed è un canale, anche potente, di egemonia delle classi dirigenti nei confronti delle classi subalterne. Dare senso e significato alle parole, ripristinare un’igiene linguistica. Gramsci avrebbe lottato, come i comunisti oggi, contro la guerra dell’imperialismo, l’avrebbe chiamata per nome e cognome ed è oggi un nostro compagno di questa lotta, ci è al fianco. Anche perché una delle caratteristiche dell’intellettuale ‘organico’ è che non è chiuso nella torre eburnea dell’accademia, a concepire filosofemi astratti, ma è 'organico' alla classe e all'organizzazione di classe, è dentro la classe come organizzatore della trasformazione qualitativa nella costruzione del processo di trasformazione sociale, per l'egemonia: e la congruità delle strategie per la trasformazione si misura dalla realizzazione operativa di obiettivi immediati e intermedi, in una intelligente politica di alleanze, non dall'idea che se ne fa chi la stabilisce.  D'altra parte, non aveva già lavorato Gramsci, su questa base, ai tempi dell''Ordine Nuovo', quando la pratica consiliare muoveva dall’idea di conquiste e realizzazioni per la classe lavoratrice, ma in una prospettiva di nuova società e di nuovi rapporti di produzione?

E’ la connessione ‘sentimentale’ che rende possibile l’identificazione intellettuali-popolo  o, ancor meglio, può identificarsi la funzione ‘organica’ del nuovo intellettuale, che, appunto, non solo sa o comprende, ma appunto “sente” e partecipa con la sua passione alle passioni del mondo.

Ma se il nuovo intellettuale è organico al progetto della trasformazione rivoluzionaria della società, egli non è un individuo solo. Egli contribuirà alla costruzione dello strumento principale dell’emancipazione degli oppressi: il partito, per la classe operaia il partito comunista.

Il partito come strumento di emancipazione costante del proletariato, un partito che si modifica interpretando correttamente la realtà e le sue incessanti trasformazioni, ma che non perde mai la bussola dei suoi principi fondanti (in un corretto rapporto tattica/strategia),  perché, oltre la sua ragion d'essere, la sua identità, così perderebbe sia il ruolo di scuola formativa, nel senso pedagogico dell’autoistruzione dell’’intellettuale collettivo’ [nel partito si organizzano le lotte, ci si confronta, si impara insieme e si cresce insieme] sia il fascino dei suoi ideali di superamento dello 'stato delle cose esistente', e cioè della barbarie capitalista. 

Il partito  è a sua volta il tramite tra dirigenti e diretti, è la coscienza di classe, è la scelta stessa dei 'mezzi' (tattica) con cui si perseguono quegli stessi fini (strategia), per il socialismo.

E, se rispetto a Gramsci sappiamo forse meno su che cosa sarà, sappiamo di più che il socialismo non è un orizzonte che scompare nelle brume del mattino, ma la rotta che vive giorno per giorno nei problemi del lavoro e della precarietà, nelle sofferenze materiali e nel dramma dell’emarginazione metropolitana e degli stenti a cui obbliga il nuovo proletariato la classe dominante. Il socialismo che respira gli aneliti di questi nostri tempi è la “secolarizzazione” necessaria. Senza di questa, i conflitti sociali, la lotta di classe, si acuiranno, ma, come abbiamo imparato proprio da Gramsci, non è detto che ciò porti con granitica certezza deterministica a un radioso avvenire.

Il partito è il principale strumento della costruzione dell'egemonia, non il solo: si pensi all'importanza, per Gramsci, delle organizzazioni sindacali, degli istituti della formazione, degli impianti culturali complessivi, ecc., dell'intero impianto sovrastrutturale; anche per questo  i processi non si svolgono meccanicamente secondo modelli precostituiti: il sindacato promuove e dirige le lotte nei luoghi di lavoro, il partito organizza le masse e le politicizza tramite la formazione dei quadri come avanguardie coscienti ; il modello rischierebbe così di non tener conto proprio delle forme della 'transizione', cioè della costituzione di una 'società civile' che nel capitalismo dell'epoca americanista e fordista  sviluppa i propri modi di essere in tipologie affatto lineari. 

L'organizzazione come direzione ed esercizio dell'egemonia delle classi subalterne è critica al concetto e alla prassi dell'organizzazione borghese, così come si concepisce e si struttura dalla Rivoluzione francese e dalla dottrina di Hegel sui partiti e le associazioni 'trama privata' dello Stato.

Il partito comunista è educatore collettivo, luogo di formazione orientato all'azione, luogo ove forgiare gli strumenti per l'analisi di classe e una prassi storicamente efficace. Ed è l'analisi guidata da princìpi che sostanziano i fini che può rendere lo strumento duttile, flessibile e creativo, , con un'intelligenza collettiva creativa, appunto, che non è mai opportunismo.

E’ l’autonomia dei comunisti, pur in una politica di ricerca unitaria per spostare in avanti i rapporti di forza favorevoli alla classe lavoratrice, che deve preservare dai fenomeni degenerativi del personalismo, oggi diremmo anche del leaderismo, dell’individualismo e dell’appannamento o dell’incoerenza rispetto ai fini strategici. Autonomia non è separazione, ma qualsiasi ricerca di slancio e afflato unitari ha necessità di salde radici per chi se ne fa promotore. I comunisti hanno una loro tradizione, una loro storia, una strutturazione ideale e di principi e valori aperta sempre al confronto e all’incontro, anche alla contaminazione, ma non disposta alla dissoluzione diventando, con linguaggio hegeliano, “altro da sé”.

Autonomia chiama in causa il radicamento popolare del partito dei comunisti. C’è chi li vuole, oggi come ieri, folcloristici e testimoniali, un gruppo settario dedito allo studio della distillazione teorica senza incidenza e senza influenza.

Ma il gramsciano 'spirito di parte', l'orgogliosa appartenenza, non è mai settarismo, integralismo di fazione, incapacità di contare nella società e di influenzare, condizionare positivamente il quadro politico per giocare in campo aperto la partita dell’egemonia.

Tenendo presente questa struttura e la sovrastruttura relativa, Gramsci tende a rovesciare i rapporti in una prospettiva di liberazione sociale: a quel blocco dominante, causa dello sfruttamento operaio e nel contempo non di una generica “arretratezza”, ma della subalternità storicamente determinata del mondo contadino del Sud,  bisogna opporre l’unità fra proletariato produttivo del Nord e contadini del Mezzogiorno. Quest’alleanza sarà il cemento di una trasformazione rivoluzionaria che il Risorgimento non aveva e non poteva compiere.

E’ una trasformazione che attende l’opera dei comunisti, ma non solo, di tutti i democratici e i progressisti: l’elaborazione di Gramsci, parla un linguaggio nuovo. Rintracciarne i fondamenti oggi, non è affatto mera scolastica accademica. E’ l’unico linguaggio che oggi può comprendere in un unico Sud, tutti i Sud del mondo. L’attualità sta qui: Gramsci nel fuoco della lotta politica e poi dal buio del carcere, riesce a universalizzare i contenuti meridionalistici e pone la rigenerazione dell’intellettuale come necessità di definitiva liberazione ed emancipazione. Cinquant’anni dopo, il fenomeno della «globalizzazione» tende allo sradicamento e rende periferia un numero sempre più esteso di territori e collettività: ma la linea di confine è sempre più tenue. Il confine è labile, non regge: e il Sud si estende, si allarga e cinge d’assedio la cittadella fortificata. La contaminazione tra culture di popoli rimescola continuamente la cultura, le culture dominanti. Ma l’imperialismo, culturale in questo caso, tende ad escludere, non a integrare: e lo sradicamento diventa estraniamento.  Ecco perché alla globalizzazione ci si contrappone rivitalizzando le radici culturali dei popoli: perché l’altra risposta, l’omogeneizzazione sotto il dominio dell’imperialismo, è regressiva e fuori tempo storico

Sedere sulla pietra, come scriveva Scotellaro, ma con la consapevolezza sempre crescente di costruire una nuova speranza e di doverla costruire non attendendo passivamente che passi la notte e sorga l’alba, ma di costruirla collettivamente con i soggetti (non meri oggetti di studio sociologico) della propria terra, così povera e asservita, ma ricca anche di quelle possibilità che il ‘giorno nuovo’ richiede.

Gramsci, può essere letto oggi da un meridionale di ogni latitudine e da tutte le coscienze avvertite delle cittadelle del Nord del mondo. Gramsci è un viandante del mondo e compagno dei popoli che anelano alla liberazione e a diventare padroni del proprio destino. 

Se noi qui oggi da Bari potessimo tornare indietro, in sogno al Gramsci ancora rinchiuso in cella a Turi, dovremmo dirgli: compagno Gramsci, l’alba sempre nuova ha una notte antica e il dolore non è il dolore sempiterno tracciato dal secolare destino, ma sofferenza di travaglio per un nuovo mondo. 

 

Ferdinando Dubla, storico del movimento operaio – delegato di Taranto al Congresso regionale pugliese del PdCI, Bari, 22 aprile 2007