Centro Studi e Documentazione marxista
Archivio Opere Secchia, Taranto

Pubblicazioni  di Ferdinando Dubla

Riproduciamo integralmente la dispensa seminariale frutto del lavoro di elaborazione del collettivo del circolo PRC "Secchia" di Leporano (TA) [scioltosi nel 1998] e curata da Ferdinando Dubla nel 1996. Il formato a stampa è per i tipi della TIMMA e può essere richiesto al Centro per euro 7,75 (£.15.000) 

 

CIRCOLO PRC 

“PIETRO SECCHIA”

Leporano (TA)

OLTRE IL MITO DELL’UTOPIA: LA FIGURA DEL “CHE” GUEVARA E LA PRASSI RIVOLUZIONARIA

  “Mi capita a volte di sognare (noi tutti sogniamo di ciò che ha a che fare con noi e con le nostre azioni) che il Che sia di nuovo tra noi, che sia ancora vivo. E’ una cosa che mi è accaduta spesso, (…) sensazioni di cui si parla poco, ma che danno l’idea dell’impatto della sua personalità e di quanto ancora, straordinariamente, la sua presenza perduri quasi in modo fisico insieme agli ideali e alle azioni da lui compiute, agli esempi, a tutto ciò che ha creato, alla  grande, duratura importanza della sua figura e al rispetto che nei suoi confronti si ha non solo nel continente latinoamericano, ma in Europa e nel mondo. E come predicemmo (…) il Che oggi è diventato un simbolo per tutti gli oppressi, gli sfruttati, i rivoluzionari e tutte le forze patriottiche e democratiche, è divenuto insomma un simbolo invincibile e duraturo.” (Fidel Castro, 1987).

  “Aveva uno sguardo pulito, puro, (..) lo sguardo degli uomini che credono. Credeva nella rivoluzione latinoamericana, nel suo processo doloroso, nel suo destino; credeva nella nuova condizione umana che deve nascere dal socialismo.” (E. Galeano, 1986)

dispensa seminariale  

circolo PRC “P. Secchia” Leporano (TA)

(a cura di Ferdinando Dubla)

1996

 

In Italia, ma non solo, la fortuna di Guevara è legata ad una certa suggestiva iconografia, che negli anni ha fatto prevalere l’immagine tipologica ad un approfondito studio dei testi, dei suoi testi e opere e della cosiddetta letteratura “critica”. Non che quella simbologia abbia arrecato danni, tutt’altro: se il mito è positivo, l’emblema non può che raffigurarne il fulgido esempio e ispirare lotte coerenti, infondendo coraggio: così nel ‘68, la figura del rivoluzionario latinoamericano ha rappresentato l’aspirazione alta alla liberazione dal capitalismo per una generazione intera di militanti, che è stata trasmessa, seppur modificata, fino ai giorni nostri. Così come il mito di Spartaco, l’esempio di Guevara è tutt’uno con l’idea stessa di comunismo.

Dal 1992, venticinquesimo anniversario della tragica morte in Bolivia (che avvenne il 9 ottobre 1967) del guerrigliero di origine argentina, in avanti, si sono succeduti numerosi incontri e convegni nell’ambito della sinistra di classe e meritorio ruolo è stato svolto da Roberto Massari e dalla sua casa editrice Erre Emme, che ha dedicato a Guevara diverse iniziative editoriali (non scritte certo per l’occasione, fuori cioè da una possibile momentanea “moda”), e sia lavori più generali sulla storia di Cuba e sul marxismo latinoamericano. (1)

Abbiamo visto riproporsi, molto negativamente, alcuni stereotipi che hanno accompagnato l’immagine del “Che” in tutti questi anni:

quello del comunista “umanista”—libertario, attento alla dimensione dell’individualità nell’ambito del pensiero marxista (di cui riprenderebbe le suggestioni e le analisi giovanili, quelle dei “Manoscritti” del 1844, per intenderci), contrapposto al comunista di tradizione leninista, impersonificato nell’effettiva realizzazione del socialismo a Cuba ad opera di Fidel Castro e del successivo stretto legame con l’Unione Sovietica e in genere con il movimento di ispirazione terzinternazionalista, differenza che si renderebbe davvero palpabile solo dopo lo sbarco dei fuoriusciti cubani sostenuti dall’imperialismo nordamericano nella Playa Giròn, nell’aprile 1961 e quindi dovuta all’immersione nei problemi concreti dell’edificazione del socialismo, susseguenti anche alla “crisi dei missili” dell’ottobre ‘62. Si spiegherebbe così, dopo la vittoria del gruppo della Sierra Maestra che riesce a por fine alla sanguinaria dittatura di Batista (1959), la volontà di Guevara di abbandonare i prestigiosi incarichi statali (era stato ministro dell’industria dal 1961 al ‘64, nonché rappresentante internazionale del nuovo governo rivoluzionario cubano) e tentare l’avventura boliviana, che doveva costargli la vita.

I testi di Massari non rendono giustizia di questi stereotipi ma, anzi, finiscono (a volte direttamente, a volte indirettamente) per avvalorarli. Abbiamo cioè l’impressione che l’opera complessiva del Che venga ancora analizzata con lenti per una lettura precostituita, più per l’impatto che il suo esempio ha avuto nell’immaginario collettivo della sinistra rivoluzionaria (oggetto d’indagine importantissimo, sia chiaro, ma che ancora deve realmente essere condotto), che riveniente invece da uno studio filologico e della sua azione e delle sue teorizzazioni.

Individuiamo alcuni nuclei tematici:

a)   l’ideale dell’unità antimperialista latinoamericano

b)   i problemi della tattica e della strategia rivoluzionaria (che richiama quello del rapporti tra princìpi e creatività nel fuoco della lotta concreta)

c)   il tema dell’alienazione e della formazione della coscienza di classe, oltre (ma non fuori) l’oggettività dei fattori economici e la più rigorosa analisi delle classi sociali, questioni strettamente intrecciate alla società di transizione e alla costruzione del socialismo.

Solo se si tiene fermo il primo punto, e cioè la necessità di controbattere il "globalismo" dell’imperialismo affamatore dei popoli e fautore della guerra, con l’unità politica del continente sudamericano, dunque con una strategia di mobilitazione permanente contro ciò che viene considerato il fattore determinante per la riproduzione dell’iniqua divisione del lavoro sociale a livello planetario e, nel caso, sub—continentale, può comprendersi  la scelta di Guevara, che non è degli ultimi anni: egli, argentino, si è formato nella stessa Bolivia e nel Guatemala di Arbenz, ha sposato una prima volta una peruviana (Hilda Gadea) in Messico; è a Città del Messico che incontra per la prima volta Fidel, reduce dalla battaglia contro la caserma “Moncada” e con lui, insieme ad altri 81 uomini, organizza, il 2 dicembre 1956, lo sbarco del “Granma”, poi la resistenza sulla Sierra Maestra e la vittoria decisiva di Santa Clara, la “città dai mille tetti rossi”, che lo vide entrare trionfante insieme a Camilo Cienfuegos, il primo martire della rivoluzione, dopo aver attaccato e fatto deragliare il treno blindato di Batista.

Lo stesso Castro chiarirà questo punto, anche in anni recenti, nel discorso commemorativo da lui tenuto a Pinar del Rio (provincia emblematica, lo ricordiamo per inciso, dato che lì era avvenuto i1 sabotaggio, uno dei più criminali, delle miniere di Matahambre), l’8 ottobre 1987:

“Né si deve trascurare l‘insistenza con cui il Che volle esaudire un suo antico desiderio, una vecchia idea, di ritornare nell‘America del Sud, nella sua patria, per fare la rivoluzione, con tutta l‘esperienza acquisita nel nostro paese (…) ho spiegato quali fossero le origini di quell‘idea, come, nel momento in cui si era unito a noi, egli avesse posto una sola condizione: che una volta realizzata la rivoluzione, nel momento in cui egli avesse voluto fare ritorno in Sudamerica non sarebbero sorte obiezioni o ragion di stato tali da interferire con quel desiderio, che non gli sarebbe stato impedito. (...) Non solo venne mantenuta la promessa di acconsentire alla sua partenza, ma lo si aiutò per quanto possibile a realizzare 1‘impegno”.

Quanto alla formazione teorica, sia Castro che Guevara diventerebbero incomprensibili senza il legame strettissimo che deve porsi con Simon Bolivar e Josè Martì: ma ricompresi con l’assimilazione del marxismo, che anzi agli inizi era più forte nel Che che in Fidel. Un marxismo che riverberava potente nella guida dell’azione pratica: dunque al servizio di una rivoluzione concreta, e per questo leninista, che internazionalmente non poteva non collegarsi all’Ottobre sovietico.

Da qui l’insistenza, sempre presente nel guerrigliero e uomo d’azione, ma personalità riflessiva e metodica caratterialmente, nonché attento studioso dell’analisi marxiana, alla fermezza nei princìpi teorici del marxismo e del leninismo e alla coerenza fra princìpi e strategia per il comunismo. Egli giudicava gli avvenimenti secondo questi parametri non spiegabili per le apparenze contingenti, per cui il rapporto tra tattica e strategia, diventava funzionale al nesso  princìpi/creatività: nell’indissolubilità delle correlazioni tra questi, era inscritta la possibilità della vittoria contro l’imperialismo e, in generale, contro l’organizzazione capitalista della società e le sue sofisticate sovrastrutture ideologiche (vedi la legge del valore—lavoro e il “valore” ideologico che può ancora funzionare in una struttura socialista e, comunque, di transizione) per il dominio oligarchico, che tendevano ad offuscare la coscienza di classe. É in questa complessità, teorica e di prassi rivoluzionaria nello stesso tempo, che si inquadra la prefazione che Guevara scrive nel 1963 al “Manuale” di marxismo—leninismo di Kuusinen, leader del comunismo finlandese, legato strettamente ala cultura cominternista (tanto da essere definito “mastino” dello stalinismo, secondo le solite etichettature di comodo che, anche a sinistra, fanno da schermo all’analisi scientifica) che provoca l’”indignazione” di Massari, volta invece a dimostrare la consonanza tra le concezioni trotskiste e il Che, confortata anche dal fatto che gli fu trovato nel marzapane, alla sua morte, una copia de “La storia della rivoluzione russa” di Trotsky. In quella prefazione, che va inquadrata in tutto l’operato di Guevara e non “stralciata” dalla sua biografia intellettuale, egli difende il  ruolo d’esempio e guida del PCUS e dei partiti fratelli marxisti e leninisti di tutto il mondo e, in modo tutto personale e suggestivo scrive che

“I marxisti devono essere i migliori, i più capaci, i più completi degli esseri umani (..) militanti di partito che vivono e sentono con le masse; orientatori che plasmano in direttive concrete i desideri qualche volta oscuri delle masse; lavoratori infaticabili che danno tutto di se stessi al loro popolo, che sacrificano alla Rivoluzione le loro ore di riposo, la loro tranquillità personale, la loro famiglia e perfino la loro vita, ma che non sono mai indifferenti al calore del contatto umano” (III, 61). E ancora nell’aprile 1965, ne “Il socialismo e l’uomo a Cuba” il Che espone in forma sistematica il proprio ideale di “partito operaio”, non molto diverso dai modelli storici della tradizione leninista:

  partito d’avanguardia; ammissione selettiva; minoranza di quadri formati; impegno ad elevare il livello delle masse; comunismo come programma (in realtà come ideologia); carattere esemplare e pedagogico della militanza; spirito di abnegazione e sacrificio.

Nessuna incoerenza, dunque, semmai sembra che non ci si renda conto che il tema dell'etica comunista è tutt’intero inscrivibile nella concezione guevariana della massima fermezza dei princìpi teorici (che sono quelli del marxismo più conseguente e del leninismo assunto come filosofia dell’azione “coerente ai princìpi”) e della loro applicazione alle situazioni specifiche.

Applicazione concreta, non fumisteria ideologizzante, si badi: e qui si tocca lo spinoso problema dell’utopia, anzi, del mito dell’utopia.

Guevara è consegnato in qualche modo, negli studi di Massari, come anche in altri interventi di tendenza, alla tradizione dei pensatori utopistici: ora, lo slancio ideale nella progettazione e costruzione della società socialista, è presente nello stesso Marx e in tutti i teorici del comunismo che da lui prendono le mosse; ma, certo, in polemica con l’utopismo, che è corrente ben presente nel movimento operaio sin dalle origini e contro cui, come si sa, sia Marx che Engels combattono nella I Internazionale.

 All’avversario di classe, va contrapposta un’analisi scientifica della società, delle classi sociali, della struttura economico-produttiva e non lo sterile sogno che si frantuma nelle asperità del presente (la ‘New Harmony’ e i ‘falansteri’ di Owen e Fourier). Caratteristica della carica utopica del “Che” sarebbe individuabile soprattutto nel tema dell’alienazione, e che costituirebbe il sottofondo teorico della critica ai paesi del socialismo realizzato nella celebre Conferenza di Algeri dei 1965. A noi sembra invece che proprio lo stretto legame che così viene a instaurarsi tra il pensiero guevariano e la teoria del giovane Marx, ponga la critica alle esperienze delle società socialiste, a cui non viene mai meno l’appoggio di fondo contrapposto all’imperialismo guerrafondaio, su un terreno di molto più avanzato che quello della semplicistica categoria della ‘degenerazione burocratica’ a cui sembra molto legato Massari.

Innanzitutto, proprio perché il comunismo deve configurarsi come società superiore dal punto di vista dei rapporti sociali e umani (da qui il suo “umanesimo socialista rivoluzionario” e non semplice umanesimo idealistico) , non può concorrere sullo stesso terreno e condividendo gli stessi parametri di valutazione del grado di 'benessere' (altrimenti funzionerebbe ancora la legge del valore), dell’organizzazione sociale capitalista, ma su una più elevata coscienza, capace di individuare l’autentica ricchezza sociale:

“Noi non concepiamo i1 comunismo come la somma meccanica dei beni di consumo in una data società, ma come il risultato di un atto cosciente; da ciò l'importanza dell‘educazione e, quindi, del lavoro sulle coscienze degli individui nell‘ambito di una società in pieno sviluppo materiale” (II,285).

Il socialismo come massima liberazione del soggetto storico­ concreto, che è il proletariato e i ceti che il capitalismo rende subalterni, sia materialmente che “fenomenologicamente” attraverso i suoi feticci:

“Il socialismo economico senza la morale comunista non mi interessa. Lottiamo contro la miseria, ma lottiamo al tempo stesso contro l’alienazione” (intervista a Jean Daniel, luglio 1963)

E ancora: “Vincere il capitalismo coi suoi stessi feticci, ai quali è stata tolta la 1oro caratteristica magica più efficace, il lucro, mi sembra un’impresa difficile” (lettera a José Medero Mestre, febbraio 1964). (2)

I diretti testi del grande rivoluzionario latinoamericano, dunque, fanno giustizia di molte interpretazioni ‘forzose’ del suo pensiero e della sua azione. Già novità di rilievo a questo riguardo, in Italia, è stata, nell’anno del venticinquesimo della sua tragica morte in Bolivia, la pubblicazione della sue ultime lettere a cura di Roberto Zanetti e realizzata dall’Associazione Italia-Cuba di Montagnana, per i tipi della Isonomia Editrice di Este (Padova). Ma anche qui, si tratta non di inediti; semmai pone il lettore comune, così come il ricercatore, davanti alla limpidezza del suo autentico messaggio rivoluzionario, come questo che è estratto dal Messaggio alla Tricontinentale, reso pubblico all’Avana il 17 Aprile 1967:

“Nel nostro mondo in lotta, tutte le divergenze relative alla tattica, al metodo di azione per raggiungere obiettivi limitati, vanno analizzate con il rispetto dovuto alle opinioni altrui. Quanto al grande obiettivo strategico, la distruzione totale dell'imperialismo per mezzo della lotta, dobbiamo essere intransigenti. Le nostre aspirazioni, in sintesi, sono queste: distruzione dell’imperialismo mediante 1’eliminazione del suo baluardo più potente: il dominio imperialista degli Stati Uniti d’America. Come obiettivi tattici, assumiamo la liberazione graduale dei popoli, a uno a uno, e per gruppi, attirando il nemico in una lotta difficile fuori dal suo terreno, liquidando le sue basi di appoggio: i territori dipendenti”.

La novità più consistente, però, si è avuta nel 1994, dopo la quale molti dei cliché sul Che Guevara non possono rimanere inalterati. Si tratta della pubblicazione del diario inedito scritto in Africa, esattamente nel Congo lacerato dai colpi di stato antilumumbisti ad opera dell’imperialismo, nel 1965, l’anno che costituiva fino a quel momento, un vero “buco nero” nella biografia del Che e che dette la stura a tutta una serie di immaginifiche illazioni sul luogo ove egli si trovasse, a Cuba o fuori di Cuba, vivo o morto, complice Fidel o addirittura Fidel accusato di averne deciso l’esecuzione per via dei sempre presunti, ricercati, insanabili contrasti dovuti di volta in volta a molteplici fattori, con spiccata preferenza ai problemi dello stretto legame con l’URSS, oppure a quelli fatti risalire alla sua gestione ministeriale del settore industriale (e gli esempi potremmo elencarli numerosissimi, perché è insuperabile la creatività degli imperialisti quando scambiano e spacciano la droga delle loro speranze con la realtà). (3) (4)

Non che il diario congolese aggiunga qualcosa di straordinario: ma è una conferma, per chi non ama l’utopismo fine a se stesso e l’utopismo decretato come la principale componente culturale del Che, della sua concezione leninista e coerentemente marxista della prassi rivoluzionaria. La pratica dell’azione insurrezionale è finalizzata, nei paesi ove il margine di lotta politica legale è stato annullato, a creare i quadri per una guerra di movimento che abbia le caratteristiche di lotta progressivamente popolare, cioè coinvolgente le masse. E i quadri devono scaturire non da un movimentismo empirico e spontaneista, ma dalla massima organizzazione e disciplina possibile. Le condizioni oggettive della rivoluzione, per un comunista marxista e leninista, debbono comporsi con le condizioni soggettive: coincidenza di due “maturazioni” necessarie, quelle derivanti dalla classe dominante e dall’imperialismo che deve mutare le forme politiche per mantenere gli stessi rapporti di produzione e attraversa forti crisi di consenso risolti di volta in volta con la forza o con coercizioni istituzionali, e quelle derivanti dalle forze antagonistiche e il livello qualitativo e quantitativo dei quadri dirigenti delle lotte, che devono essere quanto più possibile allargate alle masse popolari (studiando in modo determinato i1 rapporto città/campagna, la composizione sociale urbana e la composizione sociale rurale). Alcuni passi significativi del diario congolese:

-sulle intenzionalità politiche del Che, testimonianza di Rivalta:

“Il Che parlò delle sue intenzioni con me prima di intraprendere la missione. Il Congo poteva servire come base, cioè come detonatore, per rivoluzionare tutti gli altri paesi africani ed era essenziale soprattutto per la sua posizione di vicinanza al Sudafrica. La lotta, l'addestramento e 1'attivazione del Movimento di liberazione in Congo sarebbero serviti a tutti gli altri paesi e in modo particolare al Sudafrica. Questa era la sua idea. Soprattutto nella riunione con i dirigenti dei movimenti di liberazione africani, dove lui sostenne con enfasi che invece dell'addestramento a Cuba e dell'invio di fondi, come avrebbero voluto loro, occorreva addestrarsi direttamente in Congo, che era vicino.” (cfr. pag.68).

- sull’addestramento e formazione quadri: 

“La situazione era sempre più critica e il progetto di formare un esercito, con il relativo potenziale di uomini, armi e munizioni, si stava sfaldando fra le nostre mani. Ancora impregnate di non so quale cieco ottimismo, ero incapace di vedere la realtà e nel fare il resoconto del mese di settembre, scrivevo: Tutti i miei sforzi devono concentrarsi sul creare una colonna indipendente, perfettamente armata e ben rifornita, che costituisca una forza d’assalto e al tempo stesso un esempio per gli altri; se riusciremo a ottenere ciò, la situazione cambierà in modo sostanziale, in caso contrario sarà impossibile organizzare un esercito rivoluzionario; la scarsa qualità dei comandanti lo impedisce.” (cfr. pag.193)

-sulla disciplina come elemento necessario,testimonianza di Alexis: 

“I cubani erano disciplinati. Tatu diceva: questo non si può fare, e nessuno si azzardava a controbattere. Se noi mangiavamo yucca, tutti dovevano mangiare yucca; se c’era del riso, era riso per tutti. Se non c ‘era niente, allora niente per nessuno. Era sempre così. Ne restai molto impressionato. Se il Che diceva: oggi tu devi restare qui e non puoi indietreggiare, i cubani non facevano un passo indietro.” (cfr. pag.213).

Di contro, Guevara si accorge immediatamente dell’indisciplina delle forze che dovevano animare la resistenza interna, aggravata da alcuni fattori che impedivano lo sviluppo della lotta in senso popolare: l’inettitudine dei comandanti, la scarsezza dei quadri e  la latitanza della coscienza di classe, la divisione fratricida tra fazioni contrapposte (non caratterizzata ideologicamente e politicamente, ma causata da prestigio personalistico), le superstizioni, da cui comunque bisognava partire per radicare lo spirito rivoluzionario. Diventava dunque il superamento di questi fattori soggettivi, il realistico programma del contingente cubano, nella speranza che l’esempio potesse servire da sviluppo qualitativo e quantitativo delle forze soggettive per la rivoluzione, e per una resistenza che si trasformasse, appunto, in guerra popolare. Per cui l’esito delle missioni guidate da Guevara, in Congo e in seguito in Bolivia, dove le condizioni soggettive per un piano rivoluzionario erano ancora più arretrate, non può essere il metro di giudizio a posteriori delle idealità e programmi che il combattente comunista elaborava per poi trovare una coerenza nell’azione. Valga la testimonianza di Videaux sugli elementi ora presi in considerazione:

“Penso che Tatu, quando fece il primo giro in Africa, avesse giudicato, nonostante tutte le difficoltà esistenti, che in Congo ci fossero le condizioni oggettive. C’erano certe situazioni che però andavano contro tali condizioni: ad esempio che i dirigenti si trovassero fuori dal paese; mentre alcune erano favorevoli: la tensione per la morte di Lumumba o la risposta all‘eccidio di Stanleyville, dove in un paio d’ore i1 sangue era arrivato alle caviglie, perché i belgi del Comando 52 commisero ogni sorta di atrocità, e come conseguenza molti guerriglieri urbani si erano spostati nelle campagne. Per di più possedevano una gran quantità di armi pur senza saperle usare al meglio. Non avevano la preparazione, ma le risorse umane sì. Il Che insistette sull’importanza di addestrarli, perché le possibilità di vittoria risiedevano tutte in questo: preparare quella massa umana.” (ivi, pag.68/69)

Non di spontaneismo o di velleitarismo, quindi, bisogna parlare, ma di internazionalismo proletario operante. Semmai uno dei punti più controversi della prassi guevarista, dovrebbe essere più al centro dell’attenzione analitica, rispetto ai tradizionali canoni del marxismo—leninismo: può una rivoluzione svilupparsi (e vincere se si trasforma in guerra popolare) solo sul piano politico­militare, con i1 massimo dell’organizzazione e della disciplina, nonché con un’adeguata preparazione dei quadri che costituisca l’avanguardia trainante della masse? In breve, rispetto all’analisi classica marxista, pur creativamente sviluppatasi dopo la Rivoluzione bolscevica del ‘17 e con la conseguente opera del leninismo, la classe proletaria che deve assumere la guida delle lotte rivoluzionarie (in difensiva resistenziale o in controffensiva) perché la rivoluzione si incammini verso la prospettiva socialista, come si connota in un paese del ‘lumpensviluppo’, coloniale o semicoloniale? E’, cioè, il tema dell’analisi sociale, che, nella prassi rivoluzionaria comunista, lega fattori oggettivi e fattori soggettivi. Come ha notato Guillermo Almeyra, che pure ha cercato tutti i punti di contatto tra correnti trotskiste e elaborazione guevarista (l’originale elaborazione del ‘Che’, senza le interpolazioni del Debray), anche su questo punto le differenze sono sostanziali. I gruppi ‘posadisti’ brasiliani, peruviani e soprattutto argentini ed uruguagi, il Partito operaio rivoluzionario boliviano, erano gruppi settari testimoniali e solo propagandisti, che non si ponevano il problema dei contadini, maggioranza della popolazione latinoamericana. Invece “Guevara” proprio a differenza di Trotsky — “credeva che il motore della rivoluzione sarebbero stati i contadini ribelli, e non gli operai (..) integrati nel capitalismo e più o meno privilegiati. Influenzato dall‘esempio argentino, credeva che gli operai, come i sindacati peronisti, non potessero sfuggire al dominio burocratico. Di qui il suo interesse per la rivoluzione cinese”. (5) Dunque Mao, leader e teorico della “guerra di popolo”, era un consistente punto di riferimento dell’azione guevarista, sebbene con una lettura “in traduzione” nelle specifiche condizioni del continente latinoamericano; e dopo i1 1964, Vo Nguyen Giap, il grande comandante militare vietnamita, croce dei francesi prima e degli statunitensi dopo. I contadini furono mossi, nella rivoluzione cubana, e dalle oggettive barbare condizioni in cui li aveva costretti la dittatura di Batista, e dall’esempio dei “barbudos” nelle zone liberate: “Nella nostra piccola guerriglia di estrazione cittadina (...) il popolo aveva dimenticato la paura, si era deciso a lottare, imboccava senza esitazioni la via della propria redenzione. Su questo cambiamento incideva la nostra politica verso i contadini e i nostri trionfi militari, che ci mostravano già come una forza invincibile nella Sierra Maestra. Posti di fronte all‘alternativa, tutti i contadini scelsero la strada della rivoluzione. Il cambiamento di carattere(...) appariva ora in tutta la sua chiarezza, la guerra era un fatto, doloroso certo, ma transitorio, una condizione non definitiva a cui l’individuo doveva adattarsi per sopravvivere.” 

Pur con le necessarie differenziazioni, nello scritto di Mao "Problemi della guerra e della strategia” del novembre 1938 costituivano parte delle conclusioni presentate alla sesta sessione plenaria del sesto Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese — i celebri 18 punti per la funzione strategica della guerra partigiana, sembrano essere i1 materiale punto di riferimento del combattente proletario, trait d’union tra lo stesso Mao, Che Guevara e Giap (fasi difensive, di equilibrio e di controffensiva; “7. massimo sviluppo del partito comunista (...) per organizzare in ogni villaggio una cellula di partito; (..) 11. miglioramento delle condizioni di vita del popolo in zone quanto più ampie possibili”, ecc..). Guevara presenta l’edizione spagnola del libro del generale Vo Nguyen Giap “Guerra di popolo, esercito di popolo”, nel 1964, convinto che l’opera “affronta problemi di interesse generale per quella parte del mondo che è in lotta per la propria liberazione. Problemi che possono così riassumersi: la fattibilità della lotta armata in situazioni particolari in cui siano falliti i metodi pacifici di lotta di liberazione, le modalità di essa in luoghi con grandi estensioni di terreno favorevole alla guerriglia e con popolazione in maggioranza o in misura rilevante contadina.” E per Giap, come per Mao, grande era stato l’esempio e l’elaborazione leninista sull’organizzazione militare e il suo rapporto con le classi sociali: “(...) una forza armata rivoluzionaria (è) formata da tre componenti: a) il  proletariato e i contadini armati; b) i distaccamenti d’avanguardia organizzati, formati dai rappresentanti di queste classi; c) le unità dell’esercito schieratosi con il popolo. La rivoluzione ha potuto edificare in tal modo una forza armata che comprendeva essenzialmente le larghe masse operaie e contadine armate combattenti sotto la direzione del partito comunista, funzionanti da forza d’urto della spinta rivoluzionaria delle masse. Questa forza ha avuto un ruolo determinante nella vittoria della rivoluzione di febbraio  poi della Rivoluzione d’Ottobre” (6) Qui è uno dei punti dirimenti: la spinta rivoluzionaria, messa in movimento dalla situazione oggettiva, è diretta e organizzata dal partito comunista, per cui si crea la necessaria “forza d’urto” che decide le sorti del rivolgimento rivoluzionario. Dunque, leninisticamente, 1‘insurrezione può diventare rivoluzione, ma la presenza e l’attività disciplinata di un partito che rappresenti le masse popolari e sia guidata da quadri dirigenti d’avanguardia, è condizione non dello scoppio, ma dell’esito della rivoluzione. Prima, è semmai condizione soggettiva che accelera e dirige l’insurrezione, crea e rafforza la coscienza di classe, spinge verso obiettivi avanzati: costruisce un processo rivoluzionario, pronto ad essere l’avanguardia dell’eventuale punto di rottura con il sistema sociale dominante:

“Essere un partito d’avanguardia significa stare alla testa della classe operaia nella lotta per la conquista del potere e saperla inoltre condurre al potere guidandola per scorciatoie. É questa la missione dei nostri partiti rivoluzionari, e 1‘analisi deve essere profonda ed esauriente per non incorrere in errori”. Fermo restando l’”analisi differenziale”, l’obiettivo strategico del partito rivoluzionario non può non essere la presa del potere. Citando la Seconda Dichiarazione dell’Avana del 1962, dopo che i1 25 gennaio di quell’anno la Conferenza dei cancellieri latinoamericani riuniti a Punta del Este aveva espulso Cuba dall’OSA, e che concludeva la conferenza dei popoli, Guevara sottolinea un passaggio importante:

“Le condizioni soggettive di ciascun paese e cioè i fattori coscienza, organizzazione, direzione, possono accelerare o frenare la rivoluzione, a seconda del suo grado maggiore o minore di sviluppo, ma presto o tardi in ogni periodo storico, quando le condizioni oggettive maturano, la coscienza si acquisisce, l’organizzazione si fa, la direzione si forma e la rivoluzione ha luogo. (7) Si appalesa qui il grande ruolo che il Che attribuisce alla forza delle condizioni oggettive (non viceversa) per cui, anche in assenza della compiuta strutturazione di un partito d’avanguardia, con tattica e strategia coerenti e volto alla conquista del potere politico, che spinga e adegui la coscienza rivoluzionaria delle masse, questo ruolo può essere assolto dall’esempio rivoluzionario, purché poi tutte le tessere del mosaico (le condizioni oggettive costituiscono il terreno sociale dello scontro, l’esempio rivoluzionario forma i quadri e organizza 1‘insurrezione nella massima disciplina e unità d’azione, il partito rivoluzionario guida le masse popolari agli obiettivi avanzati della presa del potere politico e al socialismo, la guerra “de guerrillas” si trasforma in un più generale rivolgimento rivoluzionario con basi di massa) si incastrino correttamente nelle specifiche condizioni storiche determinate. In questo senso, il giudizio di G.Almeyra, secondo cui “si possono anche vedere il peso eccessivo che lui  - e dirigenti cubani - attribuivano al fattore cosciente, all’ ‘esempio', al ruolo soggettivo, alla volontà rivoluzionaria e l‘insufficiente padronanza delle caratteristiche storiche, etniche, culturali, dei paesi caratterizzati dallo sviluppo disuguale e combinato, nei quali coesistono settori proletari (come i minatori boliviani) o intellettuali politicizzati (come nel Congo) e altri marcati da rapporti precapitalistici e segnati da motivazioni etniche e da forme di pensiero magico” (8), dovrebbe quanto meno essere corretto da un’importante considerazione:

che le condizioni oggettive sono comunque preminenti e che le condizioni soggettive non si creano dal nulla, ma dalla disciplina e dall’organizzazione, seppure surrogando in prima istanza il ruolo dei partiti comunisti d’avanguardia, comunque favorendone semmai la formazione, lo sviluppo e/o la correzione di linea. Il leninismo di Guevara, dunque, è molto più evidente che non letture tutte basate su elementi “coscienza soggettiva” e “rivoluzione permanente”, astratti e non inquadrati nell’interpretazione marxista—leninista propria del Che.

Certo, e anzi, proprio per questo, non esiste il partito che costituisce esso stesso il “punto di rottura”, con schemi prefabbricati e con la rigidità ideologica, avulso dal reale movimento delle masse. Per cui è da questo punto di vista che va considerato il metodo di lotta guevarista, dopo la vittoria con Fidel sulla Sierra Maestra: pur su un impianto fortemente leninista dell’elaborazione, il Che prova ad intrecciare correttamente, nell’analisi e dunque nell’azione, il rapporto tra organizzazione militare, formazione dei quadri e individuazione delle forze motrici rivoluzionarie, in paesi a forte connotazione contadina e scarsa presenza quantitativa proletaria in senso stretto. L’assenza e/o l’insufficienza di un partito comunista che dirigesse le lotte dal punto di vista politico, erano in pratica sostituiti dal volontarismo soggettivo, dall’esempio in funzione della formazione della coscienza di classe. E questo, probabilmente, era ben presente e calcolato nella testa del Che, se è vero che continuamente egli ritorna sulla reale possibilità di esito negativo ( e perdita della sua stessa vita) sul breve periodo; coscienza, cioè, di preparare unaccelerazione del processo rivoluzionario contando sulle oggettive contraddizioni sociali, non l’insurrezione né i1 punto di rottura, né l’immediato impeto rivoluzionario. Compito più che di supporto, nelle sue esperienze, in particolare l’ultima boliviana, di surroga dei compiti del partito comunista di quadri e legato alle masse popolari. Questa “insufficienza soggettiva” poteva essere colmata? no, ma potevano essere sviluppate le condizioni perché si colmassero. I partiti comunisti, come quello cubano durante e immediatamente dopo la rivoluzione, potevano essere spinti ad adeguarsi non ad un marxismo— leninismo di facciata, liturgico nel formulario, ma vuoto nella sostanza, senza profondi rapporti con le masse, ma al contrario leninisti nella loro azione politica e strategica. Una sfida e scommessa ardui: ma per un comunista, si sa, la rivoluzione non è mai “un pranzo di gala”. Comunista non da tavolino, ma coerente combattente proletario: “… e ci toccò scalare i monti. Alcuni compagni svenivano. Il Che era  il primo a salire, nonostante l‘asma. Quell’uomo non aveva limiti faceva per primo quel che voleva facessero gli altri. Beveva il tè senza zucchero e diceva:”Che buono.” Più passano gli anni più ci si rende conto di che razza d’uomo fosse.” (dalla testimonianza di ‘Nane’ nel diario congolese). Il 12 agosto 1965  il Che scrive un messaggio ai combattenti, in cui ribadisce con forza quali comportamenti debbono adottarsi da parte dei cubani per legarsi alle finalità politiche, tattiche e strategiche della missione congolese, con profondo realismo e senza i tanto decantati scatti utopici: “L'indisciplina e la mancanza di spirito di sacrificio sono le caratteristiche dominanti di tutte (queste) truppe guerrigliere. Naturalmente con truppe simili non si vince alcuna guerra.Ma per capire la filosofia dell’azione guevarista fino in fondo, non si potrà mai disgiungere questo realismo dalla speranza, speranza non fideistica che ogni comunista conseguente e coerente deve possedere nella trasformazione rivoluzionaria e che non si aspetta “dal cielo”, ma si rende concreta con l’esempio, la modestia e l’amore rivoluzionari, finalizzati alla creazione e formazione di veri combattenti per il socialismo, che sappiano cogliere e sviluppare positivamente le contraddizioni dell’imperialismo: “La nostra missione è aiutarli a vincere la guerra. (...) L’ansia di insegnare deve prevalere in tutti noi ma non in maniera pedante, guardando gli altri dall‘alto in basso, bensì facendo sentire il nostro calore umano negli insegnamenti che impartiamo. La modestia rivoluzionaria deve guidare il lavoro politico e deve essere una delle armi fondamentali, unendo quello spirito di sacrificio che dovrebbe essere di esempio non solo verso i compagni di qui, ma anche verso i più deboli fra noi”. Realismo e virtù rivoluzionarie, una grande lezione di didattica operativa del marxismo e del leninismo, tutt’uno con la sua concezione generale che un combattente proletario deve possedere: bisogna amare il popolo per essere amati dal popolo. Più che romanticismo visionario, un grande insegnamento maoista.

Oltre il mito dell’utopia, dunque: perché il modo migliore di rendere vivo l’esempio di Ernesto Guevara, non è quello di rinchiuderlo in schermi pregiudizievoli né accarezzare solo la sua immagine così come recepita dall’immaginario collettivo giovanile, che pure va alimentata con la giusta coscienza, quella di classe; ma individuare nell’analisi una corretta prassi per le trasformazioni rivoluzionarie dei nostri tempi e del XXI secolo prossimo venturo, magari andando a rileggere, studiare e rimeditare la formidabile teorizzazione di tutti quegli intellettuali comunisti latinoamericani (penso all’esempio di Ander Gunder Frank) e i contributi che hanno apportato all’analisi sull’imperialismo e che troppo presto e in fretta sembrano essere stati dimenticati.

Come ha annotato Santarelli, in un suo intervento convegnistico, poi riportato sulla rivista “Latinoamerica” del gennaio—marzo 1991, quello del ‘Che’ è “un marxismo, insomma, sostenuto dal gusto della libertà e del dibattito, da un grande slancio per il rinnovamento della società e della cultura, della ricerca dell‘azione diretta e della sperimentazione. (...) All’America Latina si può e si deve guardare, senza atteggiamenti né esotici né estremistici, al contrario con occhio e spirito realistico, come a una posizione avanzata nella lotta che si svolge, oggi, e si svolgerà domani su scala mondiale”.

In quest’ottica, ci pare che possa essere continuato i1 sentiero tracciato da questo grande comunista del nostro secolo, che nessun Barrientos potrà avere la pretesa di fermare in una qualsiasi ‘Quebrada del Yuro’ del mondo.

 

 

NOTE

 

1)  Di Roberto Massari si veda il testo fondamentale “Che  Guevara-- pensiero e politica dell’utopia”, Edizioni Associate, 1987 e inoltre “Conoscere il Che”— (a cura di Roberto Massari) — con testimonianze di Castro, Sartre, Ben Bella, Gades, Granados e inediti di Guevara — Datanews,1988. Una delle iniziative più importanti invece della Erre Emme è stata la pubblicazione degli “Scritti scelti” di Guevara, Roma, 1993. Inoltre, per i tipi della stessa casa editrice, cfr. C.Tablada: “Guevara — il pensiero economico”, con introduzione di Fidel Castro (1994) e R.Massari/F.Mantinez y otros: “Guevara para hoy” (1995).

 

2)  Da qui il giudizio veritiero, nonostante la presa un pò “biblica” e le metafore religiose, di Eduardo Galeano, giornalista uruguagio, autore di reportage su Cina e America Latina, in un articolo apparso per la prima volta su “Monthly Review”, nel marzo del 1966 e ripreso dalla stessa rivista nel numero di ottobre 1969 con il titolo “Che Guevara, il Bolivar del nostro tempo?”:

“Era dedito totalmente – “coma si deve” — al difficile compito di costruire il socialismo a Cuba. Era il più austero di tutti i capi, al punto di eguagliare, in capacità di sacrificio, i cristiani delle catacombe. Convinto com‘era che la mistica del socialismo - il cammino e la fede degli uomini nel nuovo mondo - potesse costituire il movente dello sviluppo, rifiutava l’uso eccessivo di incentivi materiali e dei sistemi di pagamento che avrebbero potuto dare ad ognuno la speranza di “diventare un Rockefeller”. Si sentiva offeso della possibilità che, sotto la protezione della legge del valore, da lui rifiutata, potesse verificarsi un ritorno alla società capitalista ( altri casi lo dimostrano). Su questo argomento era duro, inflessibile. , cfr. ivi, pag.21.

 

3) Il testo, nel quale i1 diario inedito africano del Che è inserito (frammenti manoscritti o dettati ricomposti) si intitola infatti significativamente “L’anno in cui non siamo stati da nessuna parte”, e in cui possono leggersi, seguendo il filo cronologico degli avvenimenti, testimonianze di straordinaria importanza di alcuni dei protagonisti di quell’avventura congolese, primi fra tutti Victor Dreke (‘Moja’), Pablo Rivalta, Erasmo Videaux, comandanti guerriglieri e uomini di fiducia di “Tatu” (nomignolo affibbiato a Guevara in Congo), ma anche di Antoine Godefroi (detto “Chamaleso—Tremendo Punto”) rivoluzionario congolese che stabilì il contatto tra il movimento di liberazione nazionale e il contingente cubano, e in cui compaiono nitidamente le figure di Harry Villegas detto “Pombo”, inseparabile braccio destro del Che fino a tutto i1 1967, di José Maria Martinez Tamayo, ribattezzato “M’bili” (“due volte”), infaticabile guerrigliero cha troverà poi la morte in Bolivia, di Herrera y Garrido detto “Genge” oppure di Pio Pichardo e Moro Perez (che non torneranno più), di Fernandez Mell, Sanchez Bartelemy, Terry Rodriguez e di altri ancora. Il ritrovamento e la pubblicazione del diario (che era nell’archivio del Che a Cuba in forma dattiloscritta con i1 titolo “Passaggi della guerra rivoluzionaria. Il Congo”) si deve ai curatori del volume in questione, Paco Ignazio Taibo II, storico messicano, e Froilan Escobar e Felix Guerra, giornalisti cubani, edito in Italia dall’ed. Ponte alle Grazie, 1994, con l’introduzione di P.Cacucci.

 

4)  Esempi delle illazioni che circolarono: —testimonianza di Elmar May: “Secondo ‘France Presse’, il Che e Fidel si erano presi a revolverate durante una lite, e il Che era rimasto ucciso. Il quotidiano peruviano ‘La prensa’ mise in giro la voce che il Che era stato eliminato dai sovietici a causa delle sue tendenze filocinesi.” —testimonianza di Gilly: “Fidel Castro, secondo il giornale trotzkista di J.Posadas, teneva nascosta la morte del Che.” (cfr. ivi, pag.194)

 

5) Cfr. G.Almeyra/E.Santarelli: “Guevara  Il pensiero ribelle”, Datanews, 1993, pag. 35

 

6) Cfr.Vo Nguyen Giap: “Masse armate ed esercito regolare”, tr.it.Teti, 1975, pag.27. Le citazioni di Guevara in “Scritti, discorsi e diari di guerriglia”, Einaudi, 1969, pp.279 e 445/446; l‘articolo di Mao in “Opere”, vol.7 (1938/1940), ed. Rapporti Sociali, 1992, pag.65. Il presupposto di tutti è profondamente leninista e del suo sviluppo creativo e combattente del marxismo:

“Irriducibilmente ostile a ogni formula astratta, a ogni ricetta dottrinale, il marxismo esige attenta considerazione della lotta di massa in atto, che, con lo sviluppo del movimento, con l‘elevarsi della coscienza delle masse, con 1‘inasprirsi delle crisi economiche e politiche, suscita sempre nuovi e più, svariati metodi di difesa di e attacco. Non rinuncia quindi assolutamente a nessuna forma di lotta, non si limita in nessun caso a quelle  possibili ed esistenti solo in un determinato momento, riconoscendo che inevitabilmente, in seguito al modificarsi di una determinata congiuntura sociale, ne sorgono delle nuove, ancora ignote agli uomini politici di un dato periodo. Sotto questo aspetto il marxismo impara, per così dire, dall’esperienza pratica delle masse, ed è alieno dal pretendere di insegnare alle masse forme di lotta escogitate a tavolino dai ‘sistematici’.(..) In secondo luogo, il marxismo esige categoricamente un esame storico del problema delle forme di lotta”. Cfr. Lenin, “La guerra partigiana”, in Proletari, n. 5, settembre 1906, e più complessivamente i saggi “Dalla difesa all’attacco” (1906), “Programma militare della rivoluzione proletaria” (1916), “Il marxismo e l’insurrezione” (1917), considerati studi necessari preliminari ed indispensabili per lanalisi delle situazioni rivoluzionarie e le conseguenti forme di lotta anche da Pietro Secchia: “La sua tesi è sì, che occorre studiare seriamente i problemi, ma non perdersi in troppi schemi e in troppi piani, soprattutto agire, poiché il moto lo si prova camminando (credo che balzi qui evidente la consonanza tra l’interpretazione leninista di Secchia e Guevara, (ndr) (..) (il) saggio sulla “guerra partigiana” (.) è un vero e proprio gioiello di arte militare e nel tempo stesso di direttive politiche sulle diverse forme di lotta. (..) Senza alcuna pretesa, avverte, di imporre alcuna forma di lotta “da noi inventata”, né di voler risolvere a tavolino problemi che solo nel corso stesso della lotta partigiana troveranno la loro soluzione. Saper imparare dalla vita, dalla lotta e dalle masse è il consiglio che ripete costantemente mentre conduce una lotta implacabile contro ogni forma di schematismo. Al pari di Marx, Lenin pose sempre l’iniziativa storica delle masse al di sopra di tutto (..)” cfr. P Secchia, “Lenin e la scienza militare”, in Il Calendario del Popolo, maggio 1971, pag. 2595.


7) Cfr. Che Guevara: La guerra di guerriglia è un metodo, in “Cuba socialista”, n.25, settembre 1963, raccolto in Scritti, cit., pag.428/429. Il saggio è basato su questi importanti presupposti:

“La guerra di guerriglia è stata utilizzata un numero  incalcolabile di volte nel corso della storia, in condizioni diverse e con fini diversi.(...) Nella polemica in corso si suole criticare quelli che vogliono fare la guerra di guerriglia adducendo che si dimenticano la lotta di massa, come se si trattasse di metodi contrapposti. Noi rifiutiamo la concezione implicita in questa posizione: la guerra di guerriglia è una guerra di popolo, è una lotta di massa. Pretendere di fare questo tipo di guerra senza l’appoggio della popolazione, significa andare incontro a un disastro inevitabile. La guerriglia è l’avanguardia combattente del popolo, situata in un luogo determinato di un certo territorio, disposta a sviluppare una serie di azioni  di guerra tendenti al solo fine strategico possibile: la presa del potere. Questa guerriglia è appoggiata dalle masse contadine e operaie della zona e di tutto il territorio in questione. Senza queste premesse la guerra di guerriglia è inammissibile”. ivi, pag. 425/427.

  8) Cfr.G.Almeyra, op.cit., pag. 42.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

"I nostri storici devono essere coscienti della grande responsabilità del loro lavoro; essi non sono solo degli studiosi, essi sono in primo luogo dei combattenti della classe operaia, dei marxisti-leninisti militanti i quali, scrivendo la storia, assolvono una funzione importante di partito. Lo storico marxista deve ricercare la verità, distruggere le false concezioni, far risaltare la superiorità del materialismo storico quale strumento di orientamento e guida per l'azione"

Arturo Colombi, 1954

 

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