IL PARTITO- Linea Rossa
 
Comunisti in Iran

di Carlo Remeny


 
 
 
 
da 'Il Calendario del Popolo' nr. 624, ottobre 1998

Dorde Zamaneh  “Essenza del tempo": mi viene tradotto così dal farsi, cioè il persiano, sia in inglese che in tedesco. Pare che inizialmente dovesse chiamarsi “Dolore del tempo".  È il titolo di un libro andato a ruba tra giugno e luglio nella Repubblica Islamica dell'Iran. Nulla di sorprendente se non fosse per l'autore Mohammed Ali Amouhi, dirigente del Tudeh, il Partito comunista iraniano decapitato da arresti, processi, condanne a morte e lunghe pene detentive nel 1983, quando imperversava il furore rivoluzionario islamico. Amouhi non è un personaggio qualsiasi: nel momento del suo arresto, il 7 febbraio 1983, era membro del Comitato centrale e dell'Ufficio politico, faceva parte della Segreteria come responsabile per le pubbliche relazioni, per i rapporti internazionali e per il Comitato di controllo.
Sembrava che del Tudeh si fossero perse le tracce dietro le mura della prigione di Evin a Telieran, fra l'emigrazione in Europa e le rievocazioni in Iran di quanti si sentono legati idealmente a quell'esperienza ma non l'ammetterebbero mai per paura. Ora, con la pubblicazione del libro si è aperto uno squarcio: parlare di comunisti nel Paese degli Ayatollah, sebbene non sia gradito, non è più un tabù, a dimostrazione che qualcosa sta cambiando. Amouhi ha trascorso 35 anni in carcere; prima sotto lo Scià, dal 1954 al 1978,  poi nel regime islamico, dal 1983 al 1994. Il libro racconta i suoi primi 24 anni dietro le sbarre e le persecuzioni subite dal Tudeh ad opera dei Pahlavi. Di quello che è accaduto dopo, non è ancora possibile pronunciarsi pubblicamente. Ma un primo passo è stato compiuto, per di più col benestare delle autorità islamiche.
Infatti, per poter pubblicare, Amouhi ha ottenuto la consueta doppia autorizzazione dal Ministero della Cultura e della Guida islamica: il primo per preparare il testo, il secondo per stamparlo e commercializzarlo.
Amici iraniani mi hanno avvertito che la sua casa a Teheran era sorvegliata, il telefono dell'abitazione veniva ascoltato, che il personaggio era tuttora sotto stretta osservazione e che mai avrei dovuto dire chi e come si è adoperato perché l'incontro con Amouhi potesse aver luogo. Date le premesse, mi aspettavo una persona provata, risentita e soprattutto sospettosa. Grande è stata la sorpresa e sincera l'ammirazione, quando in cima alle scale del condo-minio in cui abita (a poca distanza da quel penitenziario di Evin dove ha passato buona parte degli anni trascorsi in prigione), mi sono trovato davanti un uomo dal sorriso lumino-so e mite e dall'abbraccio forte, mentre attraverso la porta spalancata del suo appartamento ho potuto scorgere la moglie e la figlia raggianti.
Amouhi ha 73 anni: è nato a Kermanshah. Ne dimostra molti di meno grazie alla ginnastica e agli esercizi fisici svolti in carcere con tenacia. Quando per anni ti dicono che sei stato condannato a morte osserva -e all'indomani tocca a te salire sul pa-tibolo, per non impazzire, fai ginnastica, corri, salti per sentire vivo il corpo. Si iscrisse al Partito comunista nel 1945. Quattro anni dopo iniziò gli studi presso la facoltà di scienze militari dell'università di Teheran. Inquadrato nelle cellule militari del Tudeh, fu arrestato nel 1954 nel corso della massiccia repressione, lanciata dallo Scià, contro le forze indipendentiste e antimperialiste iraniane che avevano sottratto la produzione petrolifera nazionale alle grandi compagnie straniere. Il Partito comunista fu messo fuorilegge e 450 suoi membri, tra i quali Amouhi, vennero processati. I capi di accusa erano: attentato ai danni della sicurezza dello Stato, tentativo di minare l'integrità delle forze armate, complotto contro la corona e divulgazione dell'ideologia marxista-leninista.
Ventisette persone furono condannate a morte e giustiziate. Anche Amouhi venne condannato alla pena capitale, successivamente ridotta all'ergastolo.
Dal dopoguerra al 1979, il Partito comunista avrebbe avuto, secondo Amouhi, non meno di 10 mila vittime a causa della repressione. Il suo libro vuole ricordare coloro che sono stati assassinati dalla Savak, la polizia politica del monarca. Amouhi osserva che anche durante gli anni più bui della repressione l'attività clandesti-na del partito aveva permesso la so-pravvivenza di tutte le strutture vitali del Tudeh. Lui ha continuato a operare nell'ambito militare col compito dì reclutare nuovi elementi tra i com-pagni di prigione. La liberazione è avvenuta nell'ottobre 1978 in seguito alle grandi manifestazioni popolari contro loScià che segnarono l'inizio della rivoluzione islamica. Da lì a poco Reza Pahlavi, abbandonato dai suoi protettori americani, avrebbe lasciato il Paese e col rientro da Parigi dell'Ayatollah Khomeini, sarebbe iniziata l’epoca della Repubblica islamica.
Amouhi sostiene che sin dalla primavera del 1979 il Partito comunista, sebbene privo di autorizzazione, fosse pronto a riprendere la sua attività pubblica. Di questo avevano discusso lui e Rafsanjani, uno dei massimi dirigenti islamici, conosciutisi in carcere sotto lo Scià. Rafsanjani era il Presidente del Parlamento e Amouhi, incaricato dal Partito, gli chiedeva delle garanzie di sicurezza perché il Tudeh potesse lavorare. Il Partito co-munista giudicava con favore il rovesciamento della monarchia, l'impegno per l'indipendenza nazionale, dopo decenni di totale asservimento agli interessi degli Stati Uniti, e la lotta per la giustizia sociale. Suscitavano però preoccupazione  gli episodi di violenza ai danni di persone e sedi del Partito che, a partire dall'estate 1979, divennero frequenti.
Rafsanjani, eletto poi Presidente della Repubblica e nominato successivamente Presidente del Consiglio per la determinazione delle scelte (carica che ricopre tuttora e che gli permette di essere il numero due della gerarchia islamica dopo la Guida, l'Ayatollah Khamenei, disse ad Amouhi che le autorità non avevano nulla in contrario affinché il Tudeh svolgesse la propria attività sebbene non condividesse l'ideolo-gia islamica. Nei fatti, gli attacchi alle sedi del Partito, le aggressioni ai dan-ni di attivisti che distribuivano i gior-nali stampati con l'autorizzazione del Ministero, rendevano difficile l'attività pubblica. Ad appesantire ulteriormente il clima fu la guerra Iran-Iraq, scoppiata nel 1980. Il Tudeh si dichiarò favorevole a combattere fintanto che ci sarebbero stati territori occupati dagli aggressori iracheni. Tuttavia, dopo la liberazione di Khorram Shahr, nell'estremo lembo sud-occidentale del Paese, area particolarmente ricca di petrolio per la conquista della quale Saddam diede inizio alle ostilità, anche col consenso degli Usa, il Tudeh si schierò per la cessazione del conflitto.
I successi sul terreno militare avevano fatto pensare al governo di Teheran che un'avanzata iraniana po-tesse investire le regioni meridionali irachene, là dove sorgono le città sante per i musulmani sciiti, Karbala e Najaf, a sud di Bagdad. A Karbala furono uccisi nel 680 i figli di Alì, per gli sciiti l'unico legittimo successore del profeta Maometto, e le loro tombe sono visitate ogni anno da milioni di pellegrini musulmani sciiti. Molti predicavano addirittura di non fermarsi a Karbala e Najaf, ma prose-guire verso Gerusalemme e liberare la Palestina. Stava inoltre per esaurirsi la fase della rivoluzione islamica contraddistinta dalle spinte verso una maggiore giustizia sociale. La ricca borghesia commerciante, schieratasi con la rivoluzione, era allarmata che le ricchezze private venissero intaccate ed esercitò una forte pressione sul clero sciita perché i gruppi dichiaratamente di sinistra, Tudeh anzitutto, venissero eliminati dalla scena politica.
Presentata come forza che tradiva la rivoluzione, il Tudeh si vide chiudere la sede del Comitato Centrale, diverse pubblicazioni furono vietate, un centinaio di membri del Partito finirono agli arresti e si ebbe un violento attacco alla tipografia del Partito. Il Comitato Centrale invitò i propri membri a cambiare domicilio per ragioni di sicurezza e fu istituita una cellula incaricata di provvedere all'e-ventuale salvataggio degli esponenti del Partito più minacciati. Sin dal 1980 la direzione del Pcus aveva da-to disposizioni affinché i membri del Tudeh, di fronte a situazioni pericolose, potessero riparare in Unione Sovietica.
Nell'estate 1980 Amouhi ebbe dei colloqui a Mosca. I dirigenti sovietici erano preoccupati sia di un eventuale attacco degli studenti islamici al-l'ambasciata dell'Urss a Teberan (sul modello di quello compiuto ai danni della rappresentanza diplomatica americana il 4 novembre 1979), sia di un complotto che alti ufficiali dello Scià stavano preparando per riprendere il potere. Nell'estate 1982 Mosca suggeriva che i dirigenti più autorevoli del Tudeh lasciassero l'Iran con la massima sollecitudine. L'Ufficio Politico del Partito, riunitosi alla fine del 1982 a Teheran, decise che due suoi membri, Amouhi e Farajulah Mizani, responsabile per l'organizzazione (giustiziato poi nel 1986), sarebbero comunque rimasti nel Paese per organizzare l'attività nella clandestinità.
Il 7 febbraio 1983 la grande retata trascinò in carcere la classe dirigente del Tudeh: 1500 persone, tra le quali Amouhi. In aprile ci furono altri arresti. Le accuse parlavano di: complotto contro l'ordine islamico, di spionaggio a favore dell'Unione Sovietica, di propaganda contraria al pensiero islamico. A distanza di molti mesi si celebrarono i processi davanti ai tribunali rivoluzionari e diversi esponenti del Partito vennero condannati a morte, tra questi anche il Comandante della Marina militare iraniana dopo la rivoluzione islamica. Amouhi trascorse 13 mesi presso le prigioni del Comité, le carceri annesse ai comandi territoriali dei Pasdaran, i guardiani rivoluzionari. Dopo venne trasferito a Evin dove lo tennero in isolamento per anni. Gli interrogativi erano condotti dal procuratore generale Ladjevardi, ucciso da un commando di un gruppo di opposizione (Mujaheddin del popolo) alla fine di agosto 1998 nel suo negozio nel Bazar di Teheran (era stato pensionato nella primavera 1998).
Amouhi rivela che sia durante gli interrogatori, sia nei colloqui coi carcerieri, gli veniva ripetuto fino alla nausea che era stato trovato colpevole e la condanna alla pena capitale era fuori discussione. Le condizioni di vita in prigione erano durissime. Era risaputo anche all'esterno, tanto che influenti esponenti religiosi inviarono degli emissari da Amouhi per chiedergli di scrivere cosa accadeva a Evin. Le relazioni furono fatte arrivare alle persone che ne fecero richiesta, ma nulla cambiò. Amouhi aveva diritto a vedere la moglie Nasrin Nafeie una volta la settimana per 15 minuti dietro a un vetro. La donna portava con sé al colloquio la loro unica figlia Maleh, nata nel 1982. Tante sono state le denunce di torture e di violazioni dei diritti umani nelle prigioni iraniane dell'epoca. Tra questi quella dell'avvocato salvadoregno Reynaldo Galindo Pohl, rappresentante speciale della Com-missione per i diritti umani dell'Onu. Pohl visitò il penitenziario di Evin nell'ottobre 1990 incontrando Amouhi e il segretario generale dcl Tudeh Kianouri assieme alla moglie Me-riam. In seguito alla visita di Pohl e sull'onda dell'emozione suscitata dalla liberazione di Nelson Mandela, avvenuta in quei mesi, Amouhi ricor-da che le condizioni di vita comin-ciarono a migliorare. “Nel 1991 ci fu poi lo choc della fine dell’Unione Sovietica – rievoca Amouhi -, un terremoto, e per noi comunisti iraniani in carcere lo fu doppiamente.  Gli sfottò dei guardiani erano continui, li liquidavo dicendo che era finito solo un modo di governare che non era socialista, mentre socialista poteva definirsi lo sviluppo che aveva permesso alla Russia di crescere in 70 anni diventando da Paese sottosviluppato una grande potenza industriale e tecnologica.
Un giorno il procuratore mi disse: sono stati gli errori di 70 anni a uccidere il comunismo. Gli risposi:  voi del clero quanti ne avete commessi in secoli?”. Nell'estate 1994 la direzione del carcere convoca Amouhi per suggerirgli di accettare un rilascio temporaneo dl una settimana. Rifiuta dicendo che sarebbe uscito solo con una dichiarazione di innocenza sottoscritta dal procuratore, visto che non è stato processato nè condannato. Qualche giorno più tardi gli viene riproposto il rilascio, ma adesso per un mese. Gli richiedono due garanti e il versamento di una somma considerevole. Rifiuta. A metà settembre 1994 alcuni agenti in borghese lo caricano in macchina e lo conducono all'abitazione della moglie. Alla donna viene fatto firmare un documento che attesta il ritiro del marito. Il permesso di libertà è valido per un mese. A un mese esatto, gli agenti si ripresentano da Amouhi per comunicare che il permesso è stato prorogato per altri 30 giorni. Così di mese in mese, sino al 21 marzo 1995, quando fanno sape-re che “la Guida islamica ha concesso la grazia”. Non è il solo ad aver riacquistato la libertà. C'è anche Nureddin Kianouri, l'ex segretario generale del Tudeh: ultraottantenne, vive con la moglie a Teheran. Amouhi avrebbe diritto alla pensione per gli anni di prigionia sotto il regime dello Scià, ma non riceve un centesimo. Vive dell'inglese imparato in cella: traduce in farsi. Quando l'abbiamo visitato, stava lavorando su testi di Fidel Castro e di Che Guevara.

Articolo pubblicato integralmente su Il Calendario del Popolo, nr. 624, ottobre 1998


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