linea Rossa

(nr.14 - gennaio-febbraio 2000)

 
 
 

LA MEMORIA RITROVATA


QUEL GENNAIO DI SANGUE

Il dopoguerra è stato quello del "centrismo" di De Gasperi, della polizia del ministro degli Interni Mario Scelba. Ma è stato anche quello dei lavoratori di Modena e dei braccianti del Sud.

di Claudio Grassi
(direzione nazionale PRC)

Modena, 9 gennaio 1950.  La polizia, in un'epoca in cui prefetti e commissari erano spesso gli stessi del ventennio fascista, faceva fuoco su una manifestazione operaia indetta per protestare contro la serrata delle Fonderie Riunite, di proprietà di padron Orsi: sei lavoratori - tre dei quali giovanissimi, di soli ventuno anni -restavano sulla strada privi di vita, insieme a decine di feriti.

Nell'Italia della ricostruzione, quelle Fonderie non erano affatto in difficoltà: nel corso dell'anno precedente la produttività era aumentata (da 1800 a 2500 quintali al mese) così come i profitti (in un anno, 222 milioni delle lire di allora). Anche gli straordinari avevano subito un netto incremento (complessivamente fino a 8000 ore mensili), mentre le retribuzioni erano diminuite.

Eppure - scavalcando unilateralmente la Camera del lavoro e l'Ufficio di collocamento - la direzione aziendale annunciava il licenziamento dei 565 dipendenti, assicurando nel contempo la riassunzione di 250 di essi e l'ingresso di un centinaio di nuovi assunti. L’evidente intento era quello di ripulire la fabbrica, di far fuori gli "attaccabrighe" della commissione interna e tutti quelli sindacalmente e politicamente impegnati. Il padrone dimezzava già il premio di produttività a quanti parlavano nelle riunioni di reparto, a chi era sorpreso a diffondere il giornale di fabbrica, a chi scioperava: questa volta voleva una resa dei conti definitiva. I lavoratori in sciopero stavano dunque difendendo il loro posto di lavoro e quello dei loro compagni; ma anche la libertà di pensiero, di associazione, di lotta per i loro diritti. In quei mesi, l'eccidio di Modena fu l'ultimo di una tragica serie:
il 30 ottobre del ‘49, a Melissa in Calabria, la Celere di Scelba aveva scaricato le sue mitraglie sugli occupanti di un fondo del marchese Berlingieri, proprietario di 2l mila ettari di terra, lasciando uccisi sul terreno due giovani braccianti. Nelle settimane successive, a Torremaggiore (Puglia), un commissario ex repubblichino ordinava la carica contro una manifestazione di braccianti che si opponevano alla decisione di ridurre l'imponibile di mano d'opera a carico dei proprietari terrieri, con conseguente aumento della disoccupazione bracciantile: anche qui, il prezzo fu di due morti. Pochi giorni dopo, a Montescaglioso in provincia di Matera, ancora dei braccianti poveri che avevano occupato pezzi di latifondo entravano nel mirino dell'azione repressiva. Risultato: altri due occupanti uccisi. Nel giro di due mesi, quattro eccidi, dodici morti, centinaia di feriti, decine di arresti.

L'opinione pubblica, non solo italiana, fu scossa da questo massacro di lavoratori. La C.G.I.L., quella di Di Vittorio, levò la sua voce contro il governo e la protervia del padronato. Nel vivo di un duro confronto tra le classi, si trattava di rendere operanti dei principi elementari di democrazia sostanziale: la terra va a chi lavora, lo sciopero (ma non la serrata) è uno strumento lecito e garantito dalla Costituzione, le armi di polizia e carabinieri devono essere bandite dalla gestione della piazza nel corso dei conflitti di lavoro.

Il movimento operaio guadagnava altresì il consenso di parte della grande stampa borghese. Così, sul Corriere della Sera si poteva leggere:
"C'è una realtà disonorevole per il nostro Paese: la rivoltante uccisione di contadini affamati, la Celere come capitolo della scienza economica, mentre proprietari di immense terre, non sufficientemente coltivate, ma pur sempre, data l'estensione, altamente redditizie, se ne stanno a Roma o a Capri, a intrigare con la politica e l'alta società".

Anche dall'estero arrivavano giudizi significativi, come quello espresso da Elisabetta Wiskermann sulla rivista inglese Illustratect
"il governo democristiano ha creato una polizia organizzatissima e violenta (arruolando molti degli appartenenti alla polizia di Mussolini) e così la classe dei ricchi si è sentita sicura".
Il dopoguerra è stato quello del "centrismo" di De Gasperi, con la pacificazione post fascista, la ricostruzione sotto la tutela a stelle e strisce del Piano Marshall, la politica deflazionistica e di contenimento della spesa pubblica di Luigi Einaudi, la polizia del ministro degli Interni Mario Scelba. Ma è stato anche quello dei lavoratori di Modena e dei braccianti del Sud. Quello che descriviamo nel nostro inserto è un pezzo della storia di popolo che i comunisti rivendicano come propria: il sacrificio di quegli anni ha segnato il percorso di lotta, le conquiste di libertà e democrazia dei lavoratori nel nostro Paese. Se ha un senso la nozione di democrazia "sostanziale" - in quanto contrapposta alle ipocrisie del formalismo giuridico borghese - allora non si può misconoscere che i comunisti, con le loro idee e le loro lotte, hanno contribuito a inverare, a riempire di contenuto progressivo il principio della libertà. Questa storia è parte essenziale di una convivenza solidale, civile, democratica; rispetto ad essa non ci sentiamo affatto degli "ex" per riprendere l'infelice espressione del presidente del Consiglio.

Certo, oggi sappiamo che la storia non è lineare, che può anche riservare delle brusche retromarce:per convincersene, basta dare un'occhiata al contenuto pesantemente regressivo dei referendum proposti oggi da Pannella e Bonino. In ogni caso, per comprendere il presente, è bene tenere a mente il passato: senza memoria non si costruisce il futuro.
 
 

da Liberazione

domenica, 9 gennaio 2000


Modena 1950,

gli operai protestano contro i licenziamenti ingiustificati alle Fonderie Riunite, la polizia risponde sparando. Una azione preordinata che provocherà la morte di sei lavoratori:

Angelo Appiani di 30 anni, Renzo Bersani di 21 anni, Arturo Chiappelli di 43 anni, Ennio Garagnani di 21 anni, Arturo Malagoli di 21 anni, Roberto Rovatti di 36 anni



 

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