linea Rossa

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ANGIOLO GRACCI: QUESTIONARIO SUL MAOISMO E LA STORIA DELLA LINEA ROSSA

da
Parlando di rivoluzioni

Ventuno protagonisti dei gruppi, dei movimenti e delle riviste degli anni '60 e '70 descrivono la loro idea di mutamento sociale
A cura di Roberto Niccolai
Prefazione di Diego Giachetti
Centro di Documentazione Pistoia Editrice


 
 

Questionario

1) Per quali motivi si è avvicinato alla Cina di Mao?

Mi sono avvicinato alla Cina attraverso l'adesione al movimento marxista-leninista nei primi anni '60. E stata una questione politica. Vivevo una situazione di crisi crescente. Anche molti altri compagni partigiani vivevano ormai uno scontro aperto all'interno del partito.Vedevamo una graduale rinuncia ad un impegno coerente, non generico, soprattutto sui "nodi" storici per il nostro paese: la questione dell'indipendenza, della libertà e della sovranità popolare sul territorio nazionale rispetto alla estesa presenza di basi militari straniere, nordamericane, verificatasi nel dopoguerra; la questione meridionale irrisolta; l'accettazione compromissoria del predominio corrotto e corruttore della Democrazia Cristiana; la visione della lotta politica in chiave prevalentemente elettoralistica e trasformista. I comunisti sono internazionalisti, quindi percepiscono e devono sapere valorizzare al massimo tutti gli avvenimenti rivoluzionari che si sviluppano, soprattutto se positivamente, a livello internazionale. Il successo della Rivoluzione cinese, il successo della rivoluzione cubana, la guerra del Vietnam contro l'intrusione imperialista statunitense divennero nostri punti fondamentali di riferimento alternativo e contribuirono, insieme ai fatti di cui parlavo prima, ad indurci a conoscersi e unirci vedendo nella Cina, in quel momento storico, l'avanguardia dell'intero movimento comunista mondiale.

2) Perché proprio Mao? Quali erano gli elementi che portavano migliaia di persone in Italia ad avvicinarsi al pensiero maoista?

Mao è stato il capo indiscusso di tutto il vittorioso processo rivoluzionario del popolo cinese durante e subito dopo la seconda guerra mondiale. Mao era divenuto il simbolo della Cina rivoluzionaria.
Abbiamo potuto apprendere solo tardivamente come anche la Rivoluzione Culturale cinese non avesse avuto solo aspetti positivi, ma come del resto tutte le rivoluzioni, anche aspetti inaccettabili. Il successo in Italia della Rivoluzione Culturale fu dovuto essenzialmente a certe sue, significative, nuove parole d'ordine che corrispondevano alle esigenze profonde e reali che erano maturate all'interno del movimento comunista e rivoluzionario italiano e internazionale pesantemente condizionati dalla involuzione burocratica e socialimperialista dell'Urss. Per esempio, parole d'ordine come "bombardare il quartier generale" e "portare avanti la lotta fra le due linee" costituivano un potente incitamento alla lotta e all'organizzazione dal basso. Erano, infatti, indicazioni che recuperavano esigenze profonde esistenti, seppur allo stato latente, nel movimento comunista italiano e non solo.

3) Quanto e cosa si conosceva allora della Cina e quali erano le fonti cui si attingeva per ottenere informazioni?

L'informazione sulla Rivoluzione cinese fu graduale. I compagni cinesi fecero un grandissimo sforzo per produrre e far pervenire, ovunque nel mondo materiale informativo.La rivista mensile era La Cina, il bollettino politico-ideologico era Pekin Information, stampati in cinque o sei lingue. Le pubblicazioni erano oggetto di studio di migliaia di compagni. Quando avvenne la rottura tra Cina popolare e Unione Sovietica, il movimento marxista-leninista detto poi maoista, era già molto grande. Anche il movimento italiano riproduceva parte di quel materiale commentandolo e propagandandolo. Il maoismo è stato l'asse portante di tutto l'imponente movimento internazionale della contestazione giovanile degli anni '60. Il dibattito era appassionato, capillare, profondo e insieme, curioso. Gli anni '60 sono stati anni, sotto molti aspetti, irripetibili. Non trovano riscontro in alcun periodo precedente come fenomeno di acculturamento di massa, di avanguardie di massa e non solamente studentesche ma anche, almeno in parte, operaie e intellettuali.

4) Secondo il suo punto di vista (o quello della sua organizzazione) la Cina era vista come un paese socialista, del Terzo Mondo, oppure asiatico (in quanto detentore di una cultura e una civiltà diversa dalla nostra)?
 
"La Cina è vicina": c'è stato, in Italia, anche un film. Noi sentivamo la Cina molto vicina. Ebbi anche la possibilità dì andarci per circa un mese, nel 1972, quando già la Rivoluzione Culturale viveva la sua grave, fatale, contraddizione con il caso Lin Piao. Però la Cina fu, in quel momento, con la sua forte, clamorosa denuncia del socialimperialismo e del revisionismo sovietico e dei partiti comunisti filo-sovietici, il punto di riferimento di tutto il movimento operaio comunista e rivoluzionario. La storia del Partito Comunista Cinese si colloca pienamente all'interno del movimento comunista internazionale.
Il Partito Comunista Cinese, con Mao, Chou En-lai, Lin Piao - quelli che erano i massimi esponenti - ha dimostrato per anni e anni di essere la parte più attiva e propulsiva del movimento comunista, di essere la punta più coerentemente critica e combattiva nei confronti dell'espansionismo imperialista statunitense quando, invece, l'Unione Sovietica si era già accinta a cristallizzare il suo ruolo in una disastrosa, inaccettabile, visione di spartizione interimperialistica del mondo pretendendo che questo fosse il modo per portare avanti l'ideale del socialismo.

5) Quali erano gli elementi principali che dividevano il suo gruppo politico dagli altri partiti o gruppi extraparlamentari, che pur si dicevano ispirati al pensiero di Mao?
 
La frazione cosiddetta "linea rossa" del Partito Comunista d'Italia (m-l) fece uscire per qualche mese una seconda edizione del giornale Nuova Unità in concomitanza con quello della cosiddetta "linea nera", tanto che su Pekin Information i compagni cinesi ebbero a pubblicare insieme, in un numero sarebbe interessante rintracciare dei primissimi anni '70, i due messaggi di saluto inviati - nell'anniversario della Rivoluzione cinese - al Comitato Centrale di quel Partito Comunista dai due distinti Partiti Comunisti d'italia (m-l).Le ragioni della rottura verificatesi all'interno del Pcd'I (m-l) - che, tuttavia anche diviso nei suoi due tronconi, restò per diversi anni la forza più consistente e dinamica del molteplice movimento marxista-leninista italiano e come tale riconosciuta a livello internazionale - sono quelle stesse che poi hanno caratterizzato l'attività della frazione di cui mi trovai ad essere rappresentante e responsabile. Oggi Nuova Unità esce ancora come rivista di cultura-politica comunista e ad essa collaboro anch'io, ovviamente in un clima e contesto politico ben diverso. Certo, però, è importante precisare quale fu il senso di quella rottura.
La frazione cosiddetta "linea rossa" si formò caratterizzandosi per una visione più aderente alla realtà italiana e ai problemi storici del nostro paese. Non a caso, ebbe i suoi più significativi punti di riferimento di massa e visse le sue lotte più qualificanti proprio nel Meridione, tra i braccianti, i contadini poveri, i baraccati, gli operai, i disoccupati di quelle regioni. Essere comunisti significa, infatti, avere la capacità di interpretare le esigenze storiche e specifiche del proprio paese. Sulla questione meridionale -pur periodicamente evocata ma nella pratica, costantemente rimossa dall'opportunismo degli apparati e che inficia e paralizza ogni capacità rivoluzionaria della sinistra italiana- nessun partito tradizionale si è mai responsabilizzato fino in fondo. Altro obiettivo fondamentale era e resta il recupero della completa indipendenza nazionale ponendo fine al diffuso insediamento militare e strategico sul nostro territorio da parte della più grande potenza imperialista mondiale, un insediamento che ha condizionato e deviato tutti i processi di sviluppo e distorto i termini della lotta politica e di classe nel nostro paese. Corruzioni, stragi, depistaggi, P2: i comunisti italiani hanno il compito di fare i conti con questa situazione concreta e non disertare dedicandosi a inconcludenti speculazioni teoriche o ad alimentare inesauribili conflittualità e litigiosità politiche che non intaccano minimamente né il potere capitalista indigeno né l'intrusione capitalista straniera.
La rottura del Pcd'I (m-l), di cui parlavamo prima, nacque per limiti di democrazia interna esistenti nel partito. Noi, nel Comitato Centrale, rimanemmo in minoranza sia pure di poco. C'era - a nostro avviso - un modo ristretto, miope, egocentrico e sospettoso di gestire la direzione del partito che confliggeva con l'esigenza urgente di apertura per sviluppare una linea di massa autentica, alternativa, a chi pensava di rafforzare l'identità del partito attraverso una politica di legittimazione verticistica attestata dalle foto realizzate a fianco di Enver Hoxha o di Mao Tse-tung. Il dogmatismo del resto si accompagna sempre a queste posizioni di arroccamento elitario, di immagine o prevalentemente ideologizzante che, però, tende ad evitare di misurarsi con le dure, effettive, esigenze di lotta di massa che da secoli, fermentano ed allora erano più che mai evidenti nel nostro paese. Anche per evitare questo pericolo "verticista" la frazione del Pcd’I (m-l) "linea rossa" non ebbe mai alcun compagno "funzionario", volendo consapevolmente essere priva di ogni sia pur minima sovrastruttura d'apparato. Così, nel novembre 1968, a Rovello Porro si svolse un congresso tempestoso e se vogliamo, anche un po' romantico, in una grande cascina a Nord di Milano, nella brughiera immersa nel freddo e nella nebbia Eravamo oltre cento compagni di tutta Italia. C'era un fervore straordinario. Ma l'entusiasmo nel sentirci liberati dagli impacci dogmatici e verticistici in cui ritenevamo di essere rimasti prigionieri confliggeva con la nostra generale inesperienza. I rapporti di forze, all'interno del paese, erano estremamente sfavorevoli perché non eravamo riusciti a radicarci in parti sufficientemente consistenti del movimento operaio, e nel contempo, eravamo sotto l'accerchiamento, la denigrazione, la diffamazione e perfino la delazione attraverso cui si articolava l'attacco continuo dell'apparato dirigente del Pci. Fu in quegli anni che il nemico di classe dette inizio alla "strategia della tensione" o "degli opposti estremismi" con la lunga serie degli attentati ai treni, che poi sfociò nella "strage di stato", di Piazza Fontana a Milano. La prima "strage di stato" era stata quella del 1° Maggio '47 a Portella delle Ginestre. L'attenzione provocatoria che lo stato, le forze politiche e sociali integrate nel sistema capitalista restaurato avevano verso di noi si manifestò all'alba del giorno successivo alla strage quando l'abitazione in cui tu mi stai ora intervistando venne invasa dalla polizia. Era il 13 dicembre del 1969. Cercavano le tracce dell'esplosivo, armi o altri indizi. Così parlava il mandato di perquisizione spiccato dalla Magistratura. Alla stessa ora venivano perquisite le case dei nostri compagni contadini e lavoratori in Calabria, come se loro, con qualche mezzo aereo di straordinaria efficienza, fossero potuti andare a Milano e ritornare in poche ore. Ci rendemmo conto in quel momento che era stata avviata una sporca manovra di depistaggio in cui noi dovevamo servire per coprire i crimini della trama nera imperialista. Riuscimmo, in seguito, a smascherare questa manovra attraverso un'avventurosa azione di controinformazione.
Io e il compagno Alberto Sartori, altra medaglia d'argento alla Resistenza, affrontando rischi di ogni genere, portammo al giudice Stiz di Treviso le prove che consentirono alla Magistratura di dirottare a destra l'inchiesta sulle stragi.Per quanto riguarda il discorso cui tu accennavi sullo stalinismo, conoscevo ben poco gli aspetti negativi del fenomeno. Avevamo usato il nome di Stalin nel corso della Resistenza come grido di battaglia unendolo a quello di Lenin: "Viva Lenin, viva Stalin!". Fu un binomio che dimostrava sia l'estrema semplificazione, sia l'ignoranza che avevamo noi compagni di base, modesti militanti combattenti, in massima parte usciti appena dal buio culturale del fascismo.Invece, probabilmente, i nostri massimi dirigenti politici sapevano delle decine di compagni italiani, anche operai, scomparsi in Russia per le purghe staliniste. Di queste vittime, tuttavia la sinistra comunista teme ancora o esita a parlare in Italia; segno della fragilità e delle contraddizioni che la contraddistinguono. Eravamo anche "stalinisti", perché nella semplificazione cui ci portava l'incolpevole ignoranza e la concitazione dell'immediato scontro, constatavamo come il nome di Stalin facesse paura alla borghesia e ai fascisti. Gridare "Stalin" allora, significava sentirci più forti.In realtà la situazione che aveva permesso a Stalin di portare avanti un certo tipo di politica terroristica-repressiva all'interno delle file comuniste era derivata da condizioni storiche sicuramente collegate alla debole democrazia esistente nel movimento internazionale e all'assenza di senso critico e di tempestiva vigilanza dei militanti.Stalin, nel 43 giustificandosi con contingenti esigenze politico-strategiche conseguenti all'alleanza con le vecchie potenze imperialiste contro il nuovo e più aggressivo imperialismo nazifascista, sciolse l'Internazionale ma, all'indomani della vittoriosa conclusione della guerra si guardò bene dal ricostituirla. Impose, invece al suo posto il principio dello "stato guida", del "partito guida", una vera e propria aberrazione dell'ideale comunista malamente coperta dalla costituzione del Cominform. Circa gli altri gruppi "marxisti-leninisti", per esempio, quello diretto da Brandirali e Lo Giudice, avemmo con essi alcune riunioni anche qui a Firenze nella prospettiva di possibili confluenze o intese unitarie. Oggi, Brandirali lo troviamo esponente politico degli ex democristiani milanesi, mentre Lo Giudice figura come difensore di punta di Bettino Craxi. Molti episodi hanno dimostrato in quanti modi diversi furono assimilati gli ideali del marxismo-leninismo e lo stesso pensiero dì Mao Tse-tung. Ciononostante il fenomeno della molteplicità dei "gruppi", del frazionamento "gruppettista" fu in gran parte oggettivo, perché conseguente alla insufficiente maturità delle forze che animarono e interpretarono l'eccezionale periodo del Sessantotto. Si era creato, in quegli anni, nel mondo e in particolare in Italia un clima che stimolava soprattutto le nuove leve giovanili e studentesche ad impegnarsi verso una prospettiva tendenzialmente rivoluzionaria. Quella fu l'epoca non solo della Rivoluzione cinese, ma della guerra del Vietnam, della rivoluzione a Cuba, dell'impresa di Che Guevara. Sulla base delle provenienze sociali, specialmente nelle aree metropolitane più forti, la piccola borghesia studentesca produsse, in modo spontaneistico, varie forme di organizzazione e di intervento. L'assenza di un adeguato radicamento nel mondo produttivo, l'inesperienza politica, l'iperintellettualismo, le velleità leaderistiche concorrenziali portarono l'area marxista-leninista a spaccarsi su questioni teoriche ed ideologiche "di principio", ciascuno proponendosi come migliore interprete del "giusto pensiero" di Mao Tse-tung, di Lenin, di Stalin e così via. Per quanto riguarda la frazione "linea rossa" del Pcd'I (m-l) - così come credo di poter dimostrare, per quanto mi riguarda, con la serie di processi subiti, l'ultimo nel gennaio del '94 a Eboli, insieme a Otto operai - abbiamo sempre cercato di privilegiare, invece, la presenza concreta e attiva nei movimenti di lotta di massa considerandoli anche come momento della nostra formazione di militanti e preziosa conoscenza della realtà storica e delle reali condizioni di vita dei lavoratori e, più in generale, della gente del nostro paese. Nello stesso tempo procedevamo, così, alla formazione e selezione dei quadri. Quella maoista è stata, soprattutto negli anni '60-'70, l'interpretazione più correttamente critica e autocritica che il movimento comunista ha dato di se stesso sviluppando la contrapposizione, sul terreno ideologico e della politica internazionale, con l'Unione Sovietica e dando un impulso, rimasto insuperato, alla lotta antimperialista intesa non genericamente, ma nei confronti degli Stati Uniti. Mi ricordo che per il Congresso di costituzione del Pcd'I (m-l), tenutosi a Livorno nel '66, preparai io stesso un volantino illustrandolo con foto sulle atrocità imperialiste consumate nella guerra in corso nel Vietnam. Vi trascrissi una frase di Mao, semplice e inequivocabile così come gli aveva suggerito la sua originaria cultura contadina: "combattere o no l'imperialismo nordamericano, questa è la netta linea di demarcazione che divide i comunisti dai moderni revisionisti". Personalmente, ne sento ancora la profonda verità, sia come comunista che come italiano. Sono rimasto fedele a quella "parola d'ordine" considerandola attuale e ineccepibile.

6) Quali erano per lei gli aspetti più rilevanti del maoismo in generale e della Rivoluzione Culturale in particolare?
Quando Mao lanciò la Rivoluzione Culturale, secondo lei, aveva la maggioranza o era in minoranza all'interno del Comitato Centrale?

Bisogna vedere cosa intendiamo per appartenenza ad un partito o anche ad un sindacato. Specialmente nel Meridione, molti compagni, soprattutto braccianti e operai, dicono "vado al sindacato", oppure "il partito ha detto questo" e intendono per sindacato o partito, di fatto, i rispettivi gruppi minoritari dirigenti o, addirittura solo la persona fisica del segretario. Questa concezione delle proprie strutture organizzative di difesa e rappresentanza costituisce sotto il profilo culturale una vera e propria catastrofe per le masse lavoratrici subalterne, perché il partito, o il sindacato o comunque una qualsiasi organizzazione autenticamente democratica, dovrebbero essere strutture che esprimono il potere, la partecipazione, la volontà liberamente e coscientemente espresse dalla totalità o dalla maggioranza degli associati, quella che, non a caso - come conseguenza di una perversa visione piramidale-verticistica - viene comunemente chiamata "la base". È un fatto che, in questa lunga fase di transizione al socialismo, perdura, anzi oggi si accentua, l'egemonia totale sul movimento operaio da parte della piccola e media borghesia intellettuale politicizzata. Per quanto riguarda la domanda se Mao avesse o no la maggioranza o la minoranza nel gruppo dirigente, mi mancano gli elementi per rispondere, né ritengo fondamentale la questione. Alla luce di quel poco che so e di quello che posso avere approfondito, mi rifiuto di ritenere che Mao abbia lanciato la famosa parola d'ordine della Rivoluzione Culturale "bombardare il quartier generale!" solo finalizzandola a questioni di potere personale. Questa sarebbe l'accusa più infamante e immeritata ad un uomo che ha dedicato la vita per liberare da condizioni di arretratezza medioevali un quarto dell'umanità. Certamente quella parola d'ordine della Rivoluzione Culturale scosse tutto il movimento mondiale rivoluzionario. Che poi elementi di verità vengano conosciuti dopo, e non nel momento in cui si condivide e si vive l'esperienza storica, è del tutto secondario. Noi della "linea rossa", forse in modo un po' meccanicamente imitativo ma non certo strumentale, facemmo riferimento sincero e convinto a quella parola d'ordine perché in essa trovavamo un riscontro delle passate, deludenti, esperienze vissute nel Pci che credevamo vedere riflesse anche nel partito che avevamo appena rifondato. Quella indicazione di lotta ci spinse potentemente alla critica verso il nostro gruppo dirigente, non accettando la riproposizione e il consolidarsi di una nuova struttura gerarchica elitaria.

7) Come vedeva la Cina della Rivoluzione Culturale - attraverso il pensiero di Mao rispetto all'Urss?

Fra la Cina e l'Unione Sovietica c'erano elementi di continuità e convergenza ed elementi di rottura. Mao recuperava e rispettava il leninismo, ma attaccava e criticava, in parte, le conseguenze e certe manifestazioni dello stalinismo. Criticava una visione egemone o di guida internazionale da parte dello stato e del Partito Comunista sovietici. La causa concreta per cui si sviluppò quella storica contraddizione fino alla rottura fu il rifiuto dell'Unione Sovietica di consentire alla Cina di sviluppare un suo potenziale atomico nucleare cedendogli la necessaria tecnologia. Lo scontro, che aveva sicuramente anche aspetti ideologici, nacque dall'esigenza della Cina di fronteggiare non tanto Chiang Kai-shek, quanto la minaccia della superpotenza nucleare, gli Stati Uniti, che lo sostenevano da sempre.Del resto, molto prima, anche la Rivoluzione russa aveva dovuto combattere non solo le armate bianche ma anche le truppe nordamericane sbarcate a Vladivostok e quelle inglesi sbarcate a Baku. Noi della "linea rossa" mantenevamo rapporti periodici con l'ambasciata cinese a Roma. È importante sottolineare che era nostra fondamentale convinzione che il nemico principale dell'indipendenza e della libertà dei popoli nel mondo, soprattutto per quanto riguardava direttamente l'Italia, fosse l'imperialismo americano che aveva portato al governo la Democrazia Cristiana con la connivenza del Vaticano. Così non esitammo a rompere il prezioso rapporto con la Cina quando all'ambasciata cinese, in un incontro preparato ad hoc per discutere la questione, l'addetto culturale cinese ci riferì, dopo aver preso tempo per consultarsi con i dirigenti di Pechino, che per la Cina e il movimento comunista internazionale il nemico principale doveva essere considerato il socialimperialismo sovietico ò non l'imperialismo americano. Questo avvenne, se ben ricordo, nel 1973. A quell'autorevole affermazione noi compagni della "linea rossa", più consapevoli delle dure conseguenze politiche che ne sarebbero seguite, rispondemmo con serena e cosciente fermezza che, come comunisti italiani avevamo il dovere di tener conto delle condizioni del nostro paese, per cui ci rifiutavamo di considerare nemico principale l'Urss. Da più di trent'annl, infatti, eravamo presidiati e sotto il controllo imperialista degli Usa che avevano già installato più di cento basi nel nostro paese corrompendone anche la classe dirigente. Ricordo che, pur avendola prevista, la risposta dei compagni cinese fu per noi, un trauma. Uno degli effetti perversi e più deleteri dello stalinismo, prescindendo ovviamente dal giudizio sulla grande e complessa personalità di Stalin, è stato il disastroso condizionamento conformista verso le scelte dei "vertici" e, addirittura, 1'inibizione castrante delle proprie capacità, conoscitive e di critica subita dai singoli compagni e dagli stessi quadri dirigenti. Perfino un polemico agitatore politico e quadro dirigente di livello nazionale quale fu il compagno Giancarlo Paietta, scrivendo l'ultimo suo libro, Le crisi che ho vissuto, ha ammesso di essersi autonegato alla lettura dei libri di Trotzkij considerandolo un tabù impostogli dal costume stalinista acquisito anche nel Pci. Io stesso posseggo vari libri di Trotzkij e confesso di non averli mai aperti, probabilmente per quella stessa rimozione indotta dal fatto che il loro autore, pur essendo stato una delle figure più determinati della vittoria della Rivoluzione d'Ottobre, fu, poi, additato ed eliminato come il più pericoloso nemico. Sono fatti come questi che - oggi incomprensibili ai giovani - ci aiutano a comprendere i limiti della pratica comunista che ha vissuto per decenni una sincera generazione di militanti e che spiegano anche l'inevitabilità del recente fallimento della prima esperienza storica di costruzione di un sistema politico ispirato a quegli ideali.

8) Che rapporti esistevano, secondo lei, tra il "maoismo" e la storia della Cina?

Questo è un aspetto che non ho potuto approfondire. Sicuramente il confucianesimo, sia pure in modo indiretto, ha influito anche sulla visione complessiva elaborata da Mao Tse-tung. È impossibile, infatti, che un processo rivoluzionario così vasto e profondo come quello che ha vissuto la Cina con Mao Tse-tung anche se profondamente innovativo appunto perché rivoluzionario - possa essere riuscito a prescindere totalmente dall'influenza del passato, magari per contrapporvisi e superarlo. Io non so cosa dica il confucianesimo riguardo a molte questioni. E uno dei limiti della nostra cultura scolastica occidentale. Credo che il confucianesimo abbia avuto una visione un po' schematica di tutti i valori, esprimendo un bisogno di catalogazione funzionale al mandarinismo e al sistema fortemente gerarchico e classista del potere imperiale sulla società cinese. La visione dell'uomo che ha il marxismo è, invece, una visione aperta: l'affermazione e lo sviluppo della personalità e delle capacità di tutti gli uomini è il fine della rivoluzione, è lo scopo supremo del comunismo.

9) Che rapporto credevate che esistesse tra il socialismo di Mao e l'idea di democrazia? La democrazia doveva procedere di pari passo con lo sviluppo?

La stessa Rivoluzione Culturale va interpretata come un invito ad avanzare verso una democrazia diretta e a praticarla a livello di massa, ad instaurare rapporti effettivi di democrazia in cui, attraverso la pratica della critica e dell'autocritica, quei rapporti diventino sempre più reali. Che poi in un paese profondamente arretrato ed estremamente vasto e diversificato come era ed è la Cina, apparati e gerarchie di stato e di partito abbiano fatto i propri interessi particolari, sicuramente antagonistici rispetto al grande bisogno di democrazia diretta della base o che, per contro, si siano verificati gravi ed anche disastrosi eccessi da parte del movimento delle Guardie Rosse, tutto ciò è, a sua volta, conseguenza di quelle specifiche condizioni storiche della Cina.

10) Nell'Italia di quel periodo si ripresentava - prendendo spunto dalla Rivoluzione Culturale - la questione della differenza tra democrazia borghese e democrazia proletaria?
 
La dicotomia fra democrazia formale borghese e democrazia sostanziale proletaria è stata e resta una questione centrale. Una questione che, sotto l'aspetto teorico e soprattutto nella pratica, ho vissuto nell'ambito delle vicende del partito o, meglio, "di partito". Comunque, sempre in modo conflittuale. La democrazia, infatti, per poter essere pienamente vissuta, presuppone l'acquisizione di livelli di esperienza e, quindi, di coscienza sempre più avanzati. Più avanzati sono i livelli di coscienza di coloro che sentono l'esigenza di democrazia, più questa garantisce l'affermazione della libertà di ogni singolo individuo e, di conseguenza, dell'intera collettività. Viceversa, più i livelli di coscienza sono ridotti, meno spazio esiste per democrazia sostanziale e, per contro, aumentano i riti e i condizionamenti imposti da quanti hanno interesse a fermarsi e ad affermarsi in una democrazia formale. Trattasi, perciò, di una vera e propria battaglia culturale che coincide con quella che definisco come "la lotta di classe nella lotta di classe", ovvero la lotta di classe al suo più alto livello. Il primo episodio che mi portò a riflettere criticamente sui limiti della democrazia esistenti negli stati del "socialismo realizzato" fu quando appresi dalla stampa borghese - e qui si capisce uno dei perché la borghesia sia ancora classe storicamente dirigente e, in parte, anche rivoluzionaria - che la notizia dello sbarco americano sulla luna era stata rigorosamente ignorata dalla stampa cinese. Non andai a fondo della questione, ma considerai grave e allarmante il fatto che mi trovassi a considerare vero o possibile che il governo e il partito cinesi non ne avessero informato il proprio popolo. La stessa vicenda di Lin Piao, del resto, fu gestita, sul piano dell'informazione, in modo estremamente verticistico o se si vuole, "centralizzato". C'era poi la questione, altrettanto grave e allarmante, del sistematico "culto della personalità" dei massimi dirigenti dei paesi socialisti. Il culto della personalità si manifestò in Cina con espressioni più evidenti rispetto a quello di Stalin nell'Unione Sovietica. Stalin non era arrivato al punto di farsi cantare come "sole rosso". Certamente occorrerebbe analizzare il fenomeno partendo, però, dalla prima deviazione, in tal senso, manifestatasi nell'Unione Sovietica con il culto di Stalin. E indubbio, comunque, che solo apparati di comando, degenerati in gruppo privilegiato di potere, hanno sempre avuto un vitale interesse a creare attorno alla figura del massimo esponente, attraverso i metodi dell'adulazione servile, un alone dì sublimazione idealistica e perfino mistica, funzionale tanto a "ingabbiare" chi siede al vertice, quanto a suggestionare le cosiddette "vaste masse" considerate, di fatto, e nonostante tutto, ancora masse subalterne strumentalizzabili. Fu, del resto, lo stesso Mao Tse-tung a riconoscere - non ricordo in quale circostanza, credo nella lettera alla moglie - di sentirsi a disagio e ormai prigioniero degli apparati e dell'idolatria politica di cui era stato fatto oggetto.

11) Che significato avevano in Italia "parole d'ordine" come: "Che Cento Fiori sboccino, che Cento Fiori liberamente si affrontino"; "Ribellarsi è giusto"; "Chi non ha fatto l'inchiesta non ha diritto di parola"; "Le comuni popolari"; "Bombardare il quartier generale"; "Il potere sta sulla canna del fucile"; "Un esercito senza gradi"; "Metà studio-metà lavoro"?

Come ho già avuto occasione di accennare precedentemente, molte "parole d'ordine" che caratterizzarono la Rivoluzione Culturale cinese vennero, anche da noi marxisti-leninisti italiani, trovate calzanti alla situazione di lotta politica in corso nel nostro paese. Questo, tuttavia, avvenne in pratica anche a livello internazionale. In effetti, pressoché tutte quelle parole d'ordine furono esposte, sistematicamente, in quella vera e propria famosa antologia tascabile di citazioni di Mao, il cosiddetto Libretto Rosso curato da Lin Piao, diffuso in milioni di copie e in decine di lingue in tutti i paesi del mondo. Il primo processo politico contro marxisti-leninisti italiani fu celebrato a Bologna, nel '69, davanti a quella Corte d'Assise, proprio per un manifesto uscito, in quella città, alla vigilia delle elezioni. In esso campeggiava la frase "il potere nasce dalla canna del fucile". Ad essa avevamo fatto seguire, in un unico contesto "... e non dalla scheda elettorale". Credevamo - come sostanzialmente e realisticamente continuo a credere -nella verità storica sintetizzata efficacemente in quell'affermazione di Mao. In effetti, almeno noi, veterani della Resistenza partigiana, avevamo già avuto modo di renderci conto o, quantomeno intuire, che davvero "un popolo senza il suo esercito non ha nulla"; altra famosa enunciazione rivoluzionaria di Mao Tse-tung. È storicamente innegabile che un movimento radicale di classi subalterne se non riesce ad esprimere una sua propria forza militare convincente, credibile ed efficace, è un movimento destinato a fallire. La maggiore e vincente caratteristica rivoluzionaria dell'esercito popolare cinese fu rappresentata, fin dalla Lunga Marcia - quando ogni contadino-soldato imparava a conoscere le lettere dell'alfabeto leggendo sullo zaino del compagno che lo precedeva - dal fatto che Mao Tse-tung si preoccupasse di elevare - in piena, dura, guerra guerreggiata - il livello culturale dei propri compagni di lotta promuovendone, da subito, un processo accelerato di elevazione e, quindi, di sviluppo della coscienza facilitando, nel contempo, la formazione e l'emergere di quadri dalla "base". Il che, in fondo, era già avvenuto, sia pure con modalità diverse, nelle nostre Brigate partigiane. Sempre in Italia, molti anni dopo la Resistenza, frange deluse e disperate soprat tutto di giovani militanti provenienti dal movimento studentesco ma anche da avanguardie operaie, sostanzialmente staccate dal grosso del movimento reale del paese, furono portate ad assumere forti connotazioni di carattere idealistico rivoluzionario, ispirandosi al messaggio politico maoista e/o marxista-leninista. Quelle frange ritennero parole d'ordine di Mao come traducibili in una pratica di guerriglia urbana ignorando il ben diverso contesto-politico-economico-sociale di un paese industrialmente avanzato, i ben diversi rapporti di forza creati dalla massiccia presenza dell'imperialismo statunitense sul nostro territorio nazionale, il totalmente diverso quadro storico. Ciò non m'impedì di avvertire il dovere sebbene, ma anche proprio come compagno veterano - di sentirmi vicino a questi giovani e di capire la sincera e onesta motivazione della loro rivolta collettiva. Qui è doveroso ricordare che l’erronea scelta rivoluzionaria di quelle decine di migliaia di militanti, votata ad una drammatica sconfitta, fu facilitata dal comportamento assunto dall'apparato del Pci verso l'intero movimento di contestazione degli anni '60. Tale movimento era stato visto con sospetto e isolato dal Partito Comunista Italiano ritenendolo incompatibile con la propria linea politica e comunque pericoloso. Il Pci, invece, avrebbe dovuto avvicinare quelle migliaia di giovani, comprenderne le esigenze legittime di profondo rinnovamento della vita politica e d'apertura delle proprie prospettive verso il futuro di un paese da anni ormai segnato dalle stragi imperialiste e dalla dilagante corruzione pubblica. Così, la politica criminale del terrore di stato e della provocazione piduista", promossa dalle centrali della destabilizzazione-normalizzazione imperialista, segnò la fine di quel sogno. Furono gli Stati Uniti ad elaborare, proporre e contribuire a realizzare la strategia che spezzò quel movimento disperato ma idealmente generoso. Consentimi infine un'osservazione. Nella domanda molto dettagliata che mi hai posto manca, stranamente, quella che considero la parola d'ordine maoista più importante e addirittura legittimante tutte le altre: "portare la classe operaia al posto di comando!". È un fatto che questo centrale obiettivo rivoluzionario non è stato raggiunto, nè ieri, nè tantomeno oggi, nè in Cina, nè in alcun altro paese. Anzi, sulla base dell'esperienza italiana dobbiamo costatare e riflettere che, paradossalmente, alla classe operaia è stato sistematicamente impedito, almeno nella pratica, di raggiungere il posto di comando perfino in quello che ufficialmente viene considerato come il "suo" partito.

12) Cosa aveva di diverso o cosa accomunava la Rivoluzione Culturale con il mito di Ernesto Che Guevara, Ho Chi-minh, Malcom X, le BlackPanthers, Don Milani, ecc.?

Vorrei dire qualcosa su quella parte della tua precedente domanda che accennava alla parola d'ordine dei "Cento Fiori". Ci sono fasi storiche in cui sotto la pressione congiunta di vari fattori emotivi e materiali esplodono tendenze diverse, ma che vanno nella stessa direzione. Una fase, caratterizzata da un movimento globale, mondiale, coinvolgente ampi strati della popolazione e varie classi, assume caratteristiche diverse a seconda dei retroterra culturali, non solo dei singoli paesi ma dei vari ceti che, nel quadro del movimento generale, colgono l'occasione per esprimere le proprie esigenze insoddisfatte. Personalmente non ho ancora avuto occasione di riflettere su queste contraddizioni, ma devo riconoscere che i marxisti-leninisti, ad esempio, di Che Guevara hanno parlato in maniera positiva soltanto recentemente. Nella "linea rossa" - che aveva caratteristiche più aperte, proprio perché cercavamo di evitare ogni momento di sopraffazione privilegiando, invece, maieuticamente le possibilità di " espressione delle potenzialità" rivoluzionarie delle masse - figure come il Che, Ho Chi-min, Malcom X, le Black Panthers, ma anche quelle di Don Milani, di Dossetti e di Padre Balducci sono state sempre considerate positivamente. C'era invece chi nell'ambito del movimento marxista-leninista, teneva ad ostentare rigidità dogmatiche e "ortodosse" con i conseguenti, rituali, anatemi contro coloro che non apparivano ideologicamente "puri". Noi, invece, mai abbiamo usato, nel confronto-scontro politico, epiteti discriminatori, come ad esempio l'abusato e inflazionato termine di "trotzkista". Non a caso i cosiddetti "stalinisti" contestarono allo stesso Che Guevara di essere un trotzkista. .. E, per questo, lo ignorarono.

13) Cosa è rimasto oggi del pensiero di Mao Tse-tung? È' ancora valido come percorso per attuare il socialismo e poi il comunismo, oppure è fallito con la Rivoluzione Culturale e la morte di Mao?

Contributi politici-ideologici innovatori, elaborati e proposti in una determinata fase storica da forti personalità, qual è stata quella di Mao Tse-tung, riescono a scuotere e a caratterizzare un intero periodo. Essi mantengono un valore specifico relativamente a quel periodo e contribuiscono a modificarne i rapporti di forza e le situazioni. Tuttavia, quei contributi innovatori, pur arricchendo il pensiero rivoluzionario generale, non possono essere assunti, schematicamente, come una teorizzazione propositiva valida ad essere riproposta come idonea ad essere sperimentata in successivi e/o diversi contesti. Questo vale, ritengo, per lo stesso leninismo e, probabilmente, per la stessa concezione del partito leninista che fu pensato e collaudato per essere funzionale a quella fase storica e in quel paese. Elementi permanenti e innovatori esistono e continueranno ad essere prodotti sulla base delle acquisizioni di nuove esperienze concrete e alle conseguenti nuove occasioni di riflessione. Nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si evolve.


ANGIOLO GRACCI

Angiolo Gracci è nato a Livorno nel 1920. È laureato in giurisprudenza, nel 1949, con una tesi sugli "Aspetti costituzionali del diritto del lavoro italiano". Comandante partigiano garibaldino, ferito nella battaglia per la liberazione di Firenze, medaglia d'argento al valor militare della Resistenza. Ha scritto il primo libro sulla lotta partigiana edito in Italia (Brigata Sinigaglia, Roma, Ministero dell'Italia occupata, 1945). Ufficiale della Guardia di Finanza, dopo avere lottato per la democratizzazione delle forse armate contro l'irrompente restaurazione, subendone le conseguenze, lasciò l'uniforme nel '56. Si dedicò alla riorganizzazione del servizio legale della Camera del Lavoro di Firenze. Nel 1966 si dimise dal Pci, al quale aveva aderito nel 1944. Ne contestava, con altri ex-partigiani e militanti, il cedimento nella lotta di classe e la presenza Usa nel paese. Partecipò, a Livorno, alla fondazione del Pcd'I (m-l). Alla scissione del partito tra "linea nera" e "linea rossa", aderì a quest'ultima divenendone in seguito dirigente. Oggi milita in Rifondazione Comunista ed è stato tra i promotori dei comitati per il rimpatrio dalle carceri Usa di Silvia Baraldini e dei comitati per la difesa della Costituzione.



Per estratti dal testo di Gracci LA RIVOLUZIONE NEGATA  Il filo rosso della Rivoluzione italiana
La Città del Sole, 1999, vai a Linea Rossanr.14/00
 

scrivete a linearossa@virgilio.it

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