LETTERA A "IL MANIFESTO"


A SECCHIA QUEL CHE E' DI SECCHIA, MA AL PCI DEL '68/'69 QUEL CHE E' DI TOGLIATTI

Perché confondere, nella vicenda della radiazione del 'Manifesto' (ma non solo), l'atteggiamento della cosiddetta componente 'filosovietica' del Pci con le responsabilità della tipica cultura politica togliattiana?
Ferdinando Dubla

Capita, ad alcuni personaggi della storia, di assurgere a simbolo-emblema (negativo o positivo, poco importa) di un qualche sentimento, valore o idea collettiva che poi risulta pesante ipoteca sulla reale comprensione della sua stessa personalità e fa velo al giudizio storico o storiografico. Nella tradizione comunista italiana questo accade frequentemente per Pietro Secchia (1903/1973), eminente dirigente del Pci dai primi anni della fondazione fino al 1954, anno in cui entrò in disgrazia di Palmiro Togliatti e delle sue linee politiche; etichettato tout-court come 'capo' della componente 'filosovietica', insieme a questa divide la dura soma di tutti i crimini (veri o presunti) del comunismo 'reale'. E fra questi, è stato di recente ricordato a sinistra, il giudizio sulla 'primavera di Praga' e la radiazione dal Pci del gruppo de 'Il Manifesto', eventi politicamente e storicamente interconnessi tra di loro. E così, nello stesso giorno (21 agosto 1998) in cui leggevo il fondo interpretativo-memoriale della Rossana Rossanda sullo speciale de 'Il Manifesto' a trent'anni dall'invasione sovietica in Cecoslovacchia ("[Berlinguer] non approvò che uscisse la rivista ma non minacciò misure disciplinari; non nascose però il timore che qualsiasi presa di distanza da Mosca potesse dare spazio a una forte frazione filosovietica, come negli anni settanta fu quella di Lister in Spagna. Ma davanti a 'Praga è sola'' i Secchia, i Cossutta e anche gli Amendola e i Terracini, trovarono che non eravamo tollerabili."," cfr. 'Il Pci e Praga tra incertezza e viltà', pag.II), mi capita anche di leggere il corposo saggio di Aldo Tortorella sull'ultimo numero di Critica marxista, improntato (mi scuso per la sintesi) a rivendicare il buon 'togliattismo' dalla sua degenerazione deteriore ("Più lunga la contesa, che si concluderà solo dopo la morte di Stalin, con l'ala più nettamente sovietizzante, che era capeggiata da Secchia, e che accettava solo come tattica la linea democratica", cfr. Appunti sulla fine del Pci in Critica Marxista nn.2/3-1998, ora scaricabile in Internet all'indirizzo www.citinv.it/pubblicazioni/CRITICA_MARXISTA/2e3-1998/art11.html, da cui è stato ripreso).
Ora, se è vero che questi temi possono ai più apparire datati e astratti, la voglia di recuperare un substrato teorico-politico dignitoso nell'attuale deriva dei partiti della sinistra italiana (riformista senza riforme e antagonista senza lotta di classe), rischia di forzarli a tutto danno di un'esatta ricostruzione storica. Molti, ad esempio, farebbero soverchia fatica a rintracciare, nello scontro Cossutta-Bertinotti nel Prc, una eco, seppure pallida e acontestuale, della dialettica Togliatti-Secchia fino al 1954; essendo Secchia etichettato, come Cossutta, in modo irrimediabile, gli tocca un altro paradosso storico: egli, infatti, non solo diffidava del giovane dirigente Cossutta di allora, ma avrebbe visto smantellato da questo l'intero quadro dirigente regionale della Lombardia in odor di 'eresia' rispetto alla linea politica egemone, che era quella togliattiana e, ancor peggiore, dei suoi epigoni nell'applicazione nelle realtà periferiche. Anche sulla questione de 'Il Manifesto', ho con una certa difficoltà cercato di rintracciare, nel mio ultimo lavoro ('Secchia, il Pci e il '68', Datanews, 1998) indizi di una corrente 'filosovietica' o frazione organizzata all'interno del Pci, con esiti indubbi: essa non esisteva! O, meglio, quei dirigenti che non appena aprivano bocca venivano con noia e/o con disgusto malsopportati dalla platea dei giovani dal piglio critico e dai vecchi che stanno sempre dalla parte giusta (i figli di Togliatti), erano proprio i bollati come 'filosovietici', tra questi ovviamente Secchia, ma non solo, si pensi ad esempio ad un Ambrogio Donini o a un Mauro Scoccimarro, Eduardo D'Onofrio, niente più ormai che 'ornamenti' del Pci, considerati 'cariatidi' del bel tempo che fu.
Si badi che per me, storico nato nel 1956 e che nel '68/'69 aveva 12-13 anni, la Rossanda costituisce un'attendibile fonte di quegli eventi, ma dalla documentazione questo risulta. La parabola del gruppo Il Manifesto all'interno del Pci si data dall'XI (1966) al XII Congresso (febbraio 1969), dalla dialettica Amendola-Ingrao (quest'ultimo punto di riferimento di quell'area politica) alla elezione di E.Berlinguer alla carica di vicesegretario. Nel giugno 1969 venne fondata la rivista omonima, stampata dalla Dedalo di Bari e diretta da Lucio Magri e Rossana Rossanda. La maggiore accusa che venne mossa al gruppo fu di frazionismo:

"Tra il 15 e il 17 ottobre del 1969, relatore lo stesso Natta, trentanove membri del Comitato Centrale si espressero sul caso Manifesto. (..) L'ordine del giorno conclusivo - che non comminava provvedimenti disciplinari, ma decideva di aprire un dibattito nel partito - venne approvato con i voti contrari dei soli Natoli, Pintor e Rossanda e le astensioni di Lucio Lombardo Radice (che aveva tra l'altro collaborato al 'manifesto' su una linea cordialmente prudenziale), Cesare Luporini e Sergio Garavini. "

Nella seduta del Comitato centrale del 25 e 26 novembre si deliberò la 'radiazione' per Rossana Rossanda, Luigi Pintor e Aldo Natoli. Poco più tardi un provvedimento amministrativo venne adottato per Lucio Magri e non vennero rinnovate le iscrizioni per Massimo Caprara, Valentino Parlato e Luciana Castellina.
Il Manifesto quotidiano uscì il 28 aprile 1971, il partito nacque nel novembre dello stesso anno e si presentò alle elezioni politiche del 7 maggio 1972.
Anche secondo Ajello, una delle componenti del Pci maggiormente ostile al gruppo del Manifesto fu quella cosiddetta 'filosovietica'. Ma dalle stesse dichiarazioni di Ambrogio Donini riportate a suffragio della tesi, traspare un giudizio politico che è così articolabile: se si sopporta un'eresia come quella del marxismo critico del gruppo Magri-Rossanda, perché mai non dovrebbe sopportarsi un'organizzazione interna che si richiami al più conseguente marxismo-leninismo e all'internazionalismo proletario? Il fatto che la seconda 'componente' abbia introiettato una concezione della disciplina tale da rendere impossibile quella organizzazione, non significa che occorra 'obbedir tacendo'. Nei suoi interventi, Pietro Secchia mirerà certo a prendere le distanze dalla complessiva cultura politica del gruppo, che infatti non gli appartiene, ma sosterrà che le posizioni 'eretiche' sono molto più vicine e ai contenuti e allo stile delle posizioni ufficiali dei gruppi dirigenti, che non altre, quelle stesse che nella pubblicistica amano appunto definirsi di matrice 'filosovietica':

"Certe posizioni, certe affermazioni assunte allora e per lungo tempo mantenute dalla nostra stampa, non sono state senza influenza nello stimolare, nell'incoraggiare certi compagni ad assumere determinate posizioni ed a prendere certe iniziative che noi oggi siamo chiamati a giudicare (..) Oggi, non nascondiamocelo, l'antisovietismo è largamente diffuso in larghi settori dell'opinione pubblica ed anche nel nostro stesso partito (..) Oggi l'ultimo ragazzino dispone in Italia di un giornale o di una rivista. E' assurdo che dei compagni non possano servirsi del giornale o delle riviste del loro partito per esprimere quello che pensano sui problemi essenziali che ogni giorno sorgono nel paese e sul piano internazionale."

Il giudizio di Dalmasso secondo cui queste "sono posizioni che non rivelano solo nostalgie e non solamente proiettate verso il passato, ma che postulano un mutamento del partito, una maggiore utilizzazione di tutte le energie disponibili, un timore quasi istintivo per possibili snaturamenti", è, come quello della Rossanda, francamente sbrigativo e liquidatorio, oltre che pregiudiziale, in quanto non tiene conto che, per questa componente del Pci (né corrente né frazione) emarginata ai vertici del partito, lo snaturamento del Pci è già avvenuto e lo scontro tra le 'due linee' è, a loro modo di vedere, uno scontro interno ad una stessa linea, frutto della mutazione revisionista del partito, purtroppo poco reversibile.

Il Manifesto, insomma, è figlio, ora considerato degenere, della storia del Pci del dopoguerra, che ha visto la progressiva e violenta emarginazione dei comunisti portatori di una cultura e prassi politica coerentemente leniniste. Semmai, v'è da dire, che Secchia, così come Donini e altri, non sottolineano, in quel momento, la contraddizione dialettica che sono costretti a sopportare, anche se in tanti altri momenti trasparirà nella loro riflessione e in particolare in quella di Secchia: da una parte un gruppo con una visione troppo lontana dal marxismo-leninismo, ma tanto vicina ai movimenti rivoluzionari del '68. Dall'altra, un gruppo dirigente, erede del togliattismo, che utilizza strumentalmente metodi e strumenti terzinternazionalisti concepiti originariamente per lo smascheramento degli opportunisti, ma sempre più lontano sia dal marxismo-leninismo sia dal movimento studentesco e operaio del '68/'69.
L'internazionalismo è una scelta di campo che Secchia rivendica sempre, per sè e per il partito, ma ciò non azzera la dialettica e la concezione materialistico-dialettica profondamente marxiana nella lettura degli eventi storici: indubbiamente il gruppo de Il Manifesto è dalla parte della Cecoslovacchia di Dubcek e Secchia è dalla parte dell'URSS, ma entrambi, paradossalmente, intravvedono nella natura sociale del paese del socialismo innumerevoli crepe che hanno portato anche a quella situazione. Il gruppo de Il Manifesto condivide le critiche maoiste e cinesi alla sclerosi burocratica sovietica per il filtro della 'rivoluzione culturale' (ma la matrice maoista scomparirà gradualmente dal codice genetico del gruppo), Secchia è contro i frutti perversi del revisionismo kruscioviano, ma non può accettare 'la guerra' tra i due più grandi paesi del socialismo, nè che possa dichiararsi una equiparazione tra imperialismo americano e 'socialimperialismo sovietico' (ciò che lo distanzierà, nonostante le tante affinità di linea politica e di analisi, da raggruppamenti come il Movimento Studentesco di S. Toscano e dagli altri gruppi di matrice maoista, di gran lunga più vicini alle sue concezioni che non quelle del Manifesto). L'accusa frustra di 'stalinismo' per queste posizioni di Secchia (e altri) sul caso Manifesto, è datata e stantìa. Non è qui il caso di soffermarci con ampiezza su questo luogo comune a sinistra come a destra , ma, tenendo fermo che Secchia non fu mai un antistalinista (così come il suo stalinismo al tempo di Stalin fu un'identificazione tout-court con i valori e i princìpi del comunismo, la qual cosa condivise con la stragrande maggioranza dei dirigenti del Pci, pur senza opportunismo filisteo che ben altri, tra i quali Togliatti, ampiamente dimostrarono) conviene riportare questo stralcio dai 'diari' del 1956, annotazioni a margine della discussione in Comitato Centrale del giugno sulla base del rapporto di Togliatti:

" (..) io dubito della veridicità di alcune parti delle critiche di Krusciov a Stalin. Certe critiche mi riescono altrettanto incomprensibili e misteriose quanto certi processi all'epoca di Stalin. (..) Ma oggi che apprendiamo che quei processi sui quali dubitammo erano per gran parte delle mostruose montature, oggi che rimproveriamo ai compagni sovietici di non essersi accorti per molto tempo degli errori di Stalin e di non avervi posto fine in tempo, non possiamo più seguire l'antico costume, trovarsi di fronte a cose assurde e incredibili, dubitare e tacere."
E infatti il 17 dicembre di quell'anno fatidico, Secchia venne anche estromesso dalla direzione, immolato sull'altare del 'nuovo corso' di Togliatti, passato indenne da ogni stagione, stalinista o antistalinista.
Diamo a Secchia quel che è di Secchia e chiamiamo alle responsabilità politiche degli accadimenti storici, così come di quelli presenti, coloro che difficilmente 'sbagliano' la loro posizione nel travaglio dialettico della storia e per un motivo abbastanza semplice: essi amano sempre i vincitori della propria parte politica.
Ma questo c'entra o non c'entra con i limiti dell'italica sinistra attuale?

Ferdinando Dubla,
direttore del
Centro Studi e Documentazione marxista-Archivio opere Secchia
Taranto

Agosto 1998

L'ultimo aggiornamento di questa pagina e' stato effettuato venerdi, 11 settembre 1998
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