IL PARTITO- Linea Rossa
Red line in biblio
PERCHE' NON POSSIAMO NON DIRCI COMUNISTI
1.All'alba del XXI secolo,
il marxismo è l'arma più straordinariamente efficace per smascherare gli inganni del pensiero unico neoliberista, del ciarpame ideologico che cerca di coprire le sue contraddizioni, della prassi concreta dell'imperialismo e delle società capitaliste.'Alvaro' e gli altri di Lambrate, quelli della 'Volante Rossa'
1.Finalmente uno studio organico...
su uno dei nodi più controversi del nostro dopoguerra, questo di Guerriero e Rondinelli, tre anni di studio e di ricerca che vanno a colmare un vuoto su cui, a puntate successive e quasi sempre con intenti strumentali, si è spesa la pubblicistica politica in tutti questi anni. La base del lavoro è un saggio di Cesare Bermani pubblicato nel 1977 sulla rivista 'Primo maggio' e titolato La Volante Rossa (estate 1945/febbraio 1949), poi ripreso dallo stesso Bermani in una pubblicazione recente Storia e mito della Volante Rossa [Nuove ed. Internazionali, 1997] che ricostruiva, sulla base di testimonianze, episodi delittuosi avvenuti nel periodo in questione (regolamenti di conti con fascisti o sospettati di forte collusione con il passato regime che avevano scampato le maglie della giustizia, la stessa che negli stessi anni si accaniva sugli ex-partigiani) e cercava di inquadrare la figura del 'tenente Alvaro', alias Giulio Paggio, considerato il capo dell'organizzazione. Paggio era stato quadro attivo della guerra di liberazione nella 118^ Brigata Garibaldi "Attilio Tessaro" operante nella zona di Milano-Lambrate, la cui casa del popolo è, dall'estate 1945, la base della 'Volante Rossa', nome mutuato dalle formazioni resistenziali di numero ridotto, che avevano avuto il compito di effettuare rapide incursioni dalla montagna alla pianura per compiere azioni di sabotaggio. Altri personaggi legati alla 'Volante', che riempirono le pagine di cronaca giudiziaria alla ricerca dei piani K dei comunisti dal 1948 fino al febbraio 1955 (data dell'ultimo ricorso ricusato in Cassazione) passando per la celebre sentenza della Corte d'Assise di Verona del 21 febbraio 1951, furono Giordano Biadigo (che venne condannato per l'omicidio-Gatti a 30 anni di reclusione, mentre al 'tenente Alvaro' venne comminato l'ergastolo anche per altri due omicidi, Ghisabelrti e Massaza), Sante Marchesi, Natale Burato, Paolo Finardi, Luigi Comini, Ferdinando Clerici, Otello Alterchi, Dante Vecchio, e altri, tutti o quasi di estrazione operaia ed ex-partigiani insoddisfatti dell'esito della lotta di liberazione nazionale.
2. Insoddisfatti, ma iscritti e legati al Partito Comunista e, più che ai suoi quadri dirigenti, anche intermedi, che via via differenziarono il loro giudizio, alla base militante. Uno dei pregi maggiori di questo saggio, infatti, è di affrontare, in termini attendibilmente scientifici nel lavoro storico di analisi e confutazione di fonti, documenti e testimonianze dirette, proprio il nodo del contesto in cui le azioni della 'Volante' si collocarono e i rapporti con il Partito Comunista Italiano. In quanto al contesto (la decontestualizzazione è una delle maggiori caratteristiche del revisionismo e della pubblicistica corrente e passata alla ricerca del sensazionalismo e, ancora!, dei famosi piani K per l'insurrezione filo-sovietica, della 'doppiezza' togliattiana ecc..), il libro rende bene proprio la diffusa convinzione, nella base e anche nei vertici del PCI (una convinzione che, alla luce attuale, era più che fondata, vedi i piani di Gladio-Stay Behind e l'eversione anticomunista dello 'stato parallelo'), che una risorgente minaccia fascista potesse mettere in serio pericolo la conquista dei diritti e delle prerogative democratiche, nonchè l'impossibilità di lavorare liberamente per la prospettiva del socialismo:
"In un periodo di violenza ed illegalità diffusa, quale l'immediato dopoguerra, con una crisi economica gigantesca e la debolezza e le incertezze degli apparati dello stato, era inevitabile che chi aveva combattuto per la democrazia e per la libertà, tornasse a farlo contro il risorgere della minaccia fascista" (pag.97).
Inoltre, la 'Volante' non ebbe affatto solo il ruolo di essere braccio armato di vendetta antifascista a posteriori (anzi, dalla ricostruzione del Guerriero e Rondinelli appare che i delitti individuali, delitto Ghisalberti e delitto Bellinzoni del gennaio 1949, sfuggirono anche ai responsabili primi del gruppo), ma anche di organismo di vera e propria autodifesa da fascisti e padroni, specie nel corso della campagna elettorale del 1948:
" 'Quelli di Lambrate'
sono occupatissimi: intervengono a tutte le manifestazioni, gli scioperi, i presidi, dovunque ci sia da fronteggiare spavaldamente la polizia o i padroni. Li chiamano persino all'Università statale, dove uno sparuto gruppo di studenti comunisti che sta attuando l'occupazione si vede minacciato da un gruppo di fascisti; la Volante interviene, i fascisti fuggono ma scoppia lo scandalo perchè gli operai hanno violato i 'sacri confini' dell'ateneo". (pag.43/44). La formazione di 'Alvaro', inoltre, era stata investita della responsabilità del servizio d'ordine anche per il VI Congresso del PCI che si era tenuto a Milano nei primi giorni di quell'anno. Ecco allora il motivo del rapporto tutto particolare, tipico di quegli anni, fra PCI e 'Volante Rossa', che non veniva riconosciuta certo per il velleitarismo che supportava le azioni più cruente, ma per una mera esigenza di difesa-attacco dal pericolo eversivo di destra che si materializzava nel padrone della fabbrica che operava la serrata o nei gruppi di neofascisti che credevano ancora di poter spadroneggiare, spalleggiati da uno Stato sempre più accentuamente anticomunista e anticostituzionale, nonchè repressivo solo a sinistra. I militanti e frequentatori della Casa del Popolo di Lambrate li consideravano militanti su cui si poteva contare nei casi estremi, ma diverso era l'atteggiamento della federazione milanese del PCI, che più volte invita Paggio e compagni a por fine ad ogni azione illegale e violenta. Condanna degli atti di terrore, così si esprimerà Togliatti in un editoriale sull'Unità del 20 febbraio 1949, "ma in pari tempo vogliamo capire su quale terreno questi atti maturano, perchè essi sono sintomo, sempre o quasi sempre, di situazioni gravi, di squilibri politici e sociali su cui a lungo non ci si regge." E' sulla base di questo giudizio che il PCI favorirà il riparo all'Est per Paggio, Finardi e Burato ('Alvaro' lavorerà alle trasmissioni italiane di Radio Praga, il Burato diventò ingegnere in URSS) che con quella fuga si portarono dietro uno dei sogni resistenziali più tenaci ad andar via, quello della rivoluzione socialista.
UN LESSICO PER LA COMUNICAZIONE ANTAGONISTA
Dario Paccino: Manuale di autodifesa linguistica
ed. Arterigere-Il lavoratore oltre, 1996, pp. 105
Se 'le parole sono pietre', nell'epoca della comunicazione planetaria-telematica in tempo reale, diventano, o rischiano di diventare, macigni. Il peso del linguaggio, per un marxista, e Dario Paccino lo è, lo è sempre stato, in funzione di 'provocatore' già dal celebre Imbroglio ecologico del 1972, è il peso della sedimentazione della cultura dominante nel senso comune: coniugando Marx e Gramsci, le idee dominanti sono le idee della classe dominante, di cui il linguaggio è il veicolo fondamentale, e il linguaggio permea il senso comune; e insomma, nel villaggio globale del capitalismo totalitario del pensiero 'unico' (pensiero che si traduce in prassi concreta, eccome!), il linguaggio, un certo linguaggio, orienta, o mira ad orientare, le masse. Come risponde la cultura antagonista? E' possibile una comunicazione che spezzi l'apparenza fenomenica della borghesia imperialista e colga l'essenza dei significati? E, se è possibile, come comunicare? Domande incisive, come si vede, a cui, proprio per la latitanza cronica della sinistra di classe in questo settore, non può che rispondersi problematicamente, come tenta di fare Paccino nel suo manualetto, per la collana BIM, Biblioteca per Invendibili e Malvenduti. Una risposta problematica che non è una risposta debole, ma anzi, tenta di riappropriarsi dei significati 'forti' a cui i significanti, i codici semantico-simbolici, rimandano. La maieutica socratica è la metodologia del confronto dialettico, e la discorsività dialogica diventa il mezzo preferito per cogliere le contraddizioni; e se oggi il capitalismo è la contraddizione in processo, allora lo s/velamento (dialettico) delle sue contraddizioni, è compito prioritario che chiama in causa proprio il linguaggio e la comunicazione: perchè lo scambio/relazione a cui il concetto di comunicazione rimanda è più vicino alla radice (comun/) che genera il termine 'comunismo' che non l'apologia dell'individuo e delle sue astratte capacità che impone il capitalismo avvolto dalle spire della sua crisi. Oggi, alla fine del secolo, il secolo della Rivoluzione d'Ottobre e della restaurazione vetero-capitalistica nei paesi ex-socialisti, la ridondanza dei termini di libertà, flessibilità, politica e storia in 'ora stultorum' dei 'chierici' del capitale, è nauseante e insopportabile. La fine del millennio è la fine della storia, il fine della vita è il capitale e il fine del capitale è lo sfruttamento per il profitto, ciò che alla fine del secolo scorso, per giocare con i termini (ma non tanto) doveva diventare la fine del capitale ad opera del proletariato antagonista. 'La storia siamo noi', affermano i 'chierici'. La storia?: "la storiografia come arma di lotta, combattuta alla pari - sul campo delle lotte di classe - quando la diffusione a dimensione di massa della metodologia storica marxiana consentì l'elaborazione di una storiografia della forza-lavoro validamente contrapposta a quella dei 'saggi' del capitale: lotta al presente vinta a mani basse dal capitale in ragione della privazione della forza-lavoro delle conoscenze storiche necessarie per una corretta interpretazione del presente" (pag.94). E se alla fine del millennio iniziassimo proprio da questa riappropriazione? Un'ultima, secondaria annotazione: l'impianto leninista del testo di Paccino deve aver fatto confondere (simpaticamente) l'estensore della quarta di copertina. Che attribuisce a Paccino una delle più celebri affermazioni del rivoluzionario bolscevico: "Fino a quando gli uomini non avranno imparato a discernere, sotto qualunque frase, dichiarazione e promessa morale, religiosa, politica e sociale, gli interessi di queste e quelle classi, essi in politica saranno sempre, come sono sempre stati, vittime ingenue degli inganni e delle illusioni." E non è detto che inganni e illusioni non lascino le loro tracce anche nelle nostre file.
ALLA RICERCA DELLA MEMORIA PERDUTA
T.Tussi: La memoria, la storia
Laboratorio Politico, 1996, pp.120
Il revisionismo storico non agisce solo sugli oggetti della storia: tende a costituirsi 'senso comune', proprio nel senso gramsciano, raccogliendo un'elaborazione di parte e fondendola con la cultura della classe dominante, che è la cultura dominante. 'Se avessero prevalso i comunisti, in tutt'uno con le spinte più radicali ed estremiste della Resistenza, oggi vi sarebbe omologazione tra la nostra sorte e quella dei regimi dell'Est-Europa gravitanti intorno all'orbita sovietica': cavallo di battaglia iperideologico dopo la fine delle esperienze socialiste collegate all'Urss dall' '89 in poi. Ma quali erano quelle spinte? Che tipo di società prefiguravano, tanto da rendere così possente la carica motivazionale dei combattenti partigiani? E perchè quelle spinte vennero ad essere mortificate, non già dopo la guerra di liberazione, ma già dentro di essa, come dialettica di classe e più complessivamente ideale? Interrogativi che certo non da ora appassionano gli storici dell'età contemporanea, con esiti talmente problematici da rendere storia la stessa storiografia di riferimento. Deve convenirsi però, che, per combattere quel 'senso comune' di cui prima, un giovane che si affacci oggi, alle soglie del secondo millennio, a informarsi e rimeditare su quei nodi problematici, non può ripercorrere in breve l'intera storia della storiografia resistenziale e post-resistenziale. E allora ben venga questo libro di Tussi, raccolta di interviste e saggi che nella loro forma sarebbero piaciuti agli iscritti dei 'Convitti Rinascita' dal 1945 al 1955, di cui si occupa l'ultima parte del libro, una grande scommessa venuta fuori da intuizioni formidabili (quelle di Luciano Raimondi) sulla necessaria alfabetizzazione/formazione di massa che percorse la vena genuinamente pedagogica del PCI nel dopoguerra, scommessa persa che, come lascia intendere Tussi, può essere emblematica della sedimentazione politico-culturale degli anni a venire e di quella che può essere considerata la vera sconfitta del moto resistenziale, le reali modalità con cui venne rimodellato la Stato nazionale post-fascista.
Moto resistenziale che può essere liberato dalla retorica in due modi: o tramite il 'revisionismo', e cioè l'esito ideologico di una rimozione imposta dagli strumenti del dominio politico, o la memoria, la memoria viva dei protagonisti, il loro ricordo in mezzo a noi, in mezzo alle battaglie dell'oggi, nel mentre, nè prima nè poi, ma nel mentre infuria la battaglia politica dell'emancipazione degli oppressi, riappropriandosi di una memoria antagonista che è la sola a dare sostanza non alla storia genericamente intesa, ma alla storia dei movimenti delle classi subalterne; e dunque la parola, ridare la parola ai tanti uomini che qualcuno potrà considerare 'sconfitti' , sconfitti da una fase storica, forse, ma mai domi e sconfitti nelle loro idealità che li spinsero e li spingono tuttora alla lotta coerente e irriducibile per l'affermazione concreta delle loro speranze di allora. E Tussi dà la parola ad alcuni di questi uomini: Angiolo Gracci, Angelo Cassinera, Mario Paladini, Lionello Gaydou, Maria Teresa Rossi, cercando poi di collegare e comprendere come già nell'estate del '45 "il promemoria Parri, in pratica un questionario con domande a vasto spettro, spedito a tutte le formazioni partigiane, produceva, nella maggioranza, risposte di delusione profonda verso il piano inclinato che stava oramai davanti
al 'futuro' del partigiano" [pag. 14] e come "la delusione e lo sconforto saranno all'origine di un ritorno armato in montagna, operato da gruppi di partigiani nell'agosto 1946" [pag.15].
Se il revisionismo si nutre di 'ipostasi arbitrarie' della storia etico-politica (il Gramsci dei 'Quaderni': "La storia etico-politica è una ipostasi arbitraria e meccanica del momento dell'egemonia"), essenza del materiale ideologico dominante, la storia come memoria ritrovata, come di questi combattenti per la libertà e la giustizia sociale, non può che essere quella, come in questo libro di Tussi, che fonde la passione militante e la ricerca causale. E per tutti coloro che alla passione preferiscono l'asettica storia senza memoria, le parole di Marc Bloch: "Non diciamo che il buon storico è senza passioni; ha per lo meno quella di comprendere".