linea
rossa-lavoro politico
Angiolo Gracci (fondatore):
la vita, gli scritti
Ferdinando Dubla (direttore):biografia e opere
Pomigliano, il vero volto del capitale
Molti, ingenuamente, credono che la sparizione dei diritti e delle tutele dei lavoratori di Pomigliano, accettata sotto l’ignobile e spregevole ricatto della conservazione del posto di lavoro, possa rimanere un fatto “isolato”. Sbagliano e grossolanamente pure, forse ingannano anche loro stessi. Noi qui a Taranto lo sappiamo bene: intossicati e avvelenati, il ricatto del pezzo di pane funziona pure all’interno della fabbrica, dove i parìa sono i contrattisti precari dell’indotto e gli interinali. Pomigliano è una prova di forza che mette a nudo il vero volto del capitale: un nuovo, moderno schiavismo per aumentare la produttività e massimizzare i profitti. Cercano naturalmente sponda nei deteriori luoghi comuni che propalano anche grazie ai compiacenti e correi mass-media: troppo assenteismo, troppe malattie, con questo andazzo ce ne andiamo in Polonia dove la merce forza-lavoro costa meno, il comunismo è stato sconfitto e le maestranze si accontentano di poco, quasi nulla. Ma i padroni, e i loro amministratori alla Marchionne, che, grazie al sudore degli operai, guadagnano in un giorno salari di un anno, sono in conclusione anche penosi e sciocchi: la contraddizione della società capitalista è sempre più stridente. Chi comprerà infatti le loro merci se diminuisce a vista d’occhio il potere d’acquisto dei salariati e dei percettori a reddito fisso? E’ la stessa, pericolossissima contraddizione in cui s’è trovato il governo-regime del cavaliere e del tagliagole Tremonti: colpire i redditi fissi e di per sé già miserabili, non farà ripartire l’economia, ma la affosserà ulteriormente. Si credono forti e saldi abbarbicati ai loro parassitari privilegi, ma stanno lavorando per porre fine ad un sistema iniquo e impossibile da sostenere. Possono circondarsi quanto vogliono di servi e paggi che li ossequiano e amplificano le loro stoltezze (comprese le forze sindacali e politiche che dovrebbero opporsi con vigoria e determinazione), non servirà a nulla. Pomigliano è il loro vero volto.
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LE LEZIONI DI POMIGLIANO D’ARCO
di Fosco Giannini
Pomigliano d’Arco, referendum per dare il via libera all’accordo fascista,
anticostituzionale e antioperaio tra il Lingotto e i sindacati (Fiom esclusa) : è stata
un’inaspettata vittoria della resistenza operaia!
Solo il 62,2% degli operai dello stabilimento Fiat ha, infatti, votato “si”. Al termine
dello scrutinio dei 4.642 voti, con un’affluenza del 95%, la disgraziata intesa ha
ottenuto 2.888 “si” e 1.673 “no”. Le schede nulle sono state 59, quelle bianche 22.
Ma il dato saliente, quello che segna la qualità del voto, che ci dà speranza e che ci fa
parlare di vittoria della resistenza operaia è il fatto che nel 62% dei “si” pesa ( col suo
20% circa) il voto di tutta l’area impiegatizia, non operaia, dello stabilimento di
Pomigliano, quella parte che ha dato vita alla ( fallita) manifestazione filo-padronale
del 19 giugno e senza la quale il “si” sarebbe dunque ora al 42%, rispetto al 36%
incredibilmente ottenuto dal “no” all’accordo.
E’ chiaro che ci troviamo – sul piano gelidamente numerico - di fronte ad una vittoria
padronale e ad una consapevole ritirata strategica operaia. Tuttavia, se scriviamo che
solo il 62,2% ( ma, come abbiamo visto, in realtà il 42%) degli operai ha espresso un
consenso allo sciagurato accordo tra sindacati giallo-neri e Fiat e ben 1.673 hanno
trovato il coraggio di votare “no”, è perché la Fiat, Marchionne, l’intera
Confindustria, il governo Berlusconi, quel nazi-razzista del Ministro dell’Interno
Maroni che in un comunicato del 21 giugno ha auspicato la vittoria del “si” “perché
ciò consentirebbe una maggiore sicurezza del territorio”, la stessa Unione europea
con le sue politiche iperliberiste, speravano e davano per certo un “si” al 90% ed
oltre.
D’altra parte il livello di minacce, di pressioni, di ricatto, di controllo sui 5.200 operai
di Pomigliano d’Arco da parte della Fiat è stato così alto, violento, sindacalmente e
politicamente immorale che la speranza di un consenso all’accordo che s’innalzasse
oltre il 90% aveva solide basi materiali.
Ciò che è accaduto in queste settimane in quel distretto industriale campano; la
violenza psicologica che la Fiat ha scatenato in questa fase contro gli operai di
Pomigliano d’Arco fa già parte della storia nera del capitalismo.
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In ogni casa degli operai la Fiat ha spedito opuscoli tendenti all’apologia dell’accordo
e colmi di minacce ed evocazioni catastrofiche qualora il “si” non fosse passato a
larghissima maggioranza. L’evocazione, da parte della Fiat, del “piano C” ( la messa
in campo di una newco in grado di rilevare lo stabilimento e riassumere i 5.200
lavoratori in “un’altra azienda” – come nelle peggiori speculazioni del capitalismopirata,
come negli slalom delinquenziali del nanocapitalismo - con il contratto
aziendale anticostituzionale proposto da Marchionne) fa parte di un corredo politico e
culturale che nulla ha a che vedere con un Paese democratico borghese, con un tipo di
relazioni industriali da Paese civile, ma è inseribile in un quadro d’azione golpista, da
regimi sudamericani dell’era dei Chicago Boys, dei Pinochet e dei Videla.
Gli uomini della Fiat, gli sgherri di Marchionne, hanno stanziato numerosi nell’area
di Pomigliano d’Arco e nelle aree campane vicine; come una “task-force” nera hanno
visitato le case degli operai, circuito le famiglie, hanno incontrato per settimane – uno
dopo l’altro - piccoli gruppi di lavoratori nell’intento di blandirli e, insieme,
minacciarli : la carota del lavoro per il domani e il bastone del ritorno in Polonia e
della chiusura dello stabilimento per il presente; tutto nell’obiettivo che l’accordo
passasse a vele spiegate, con il 90% ed oltre dei consensi, nell’obiettivo di piegare
definitivamente la classe operaia, di svuotarla totalmente di capacità di resistenza e
coscienza.
Il braccio destro di Marchionne, l’ingegnere Stefan Ketter, responsabile del “
Manufacturing di Fiat Group automobiles”, è sceso al “ Giambattista Vico” ( così si
chiama l’impianto di Pomigliano ) con l’intento preciso di addestrare e mobilitare i
capireparto nella battaglia antioperaia, sguinzagliandoli in fabbrica e nel territorio alla
caccia dei ribelli, a convincere gli indecisi e rincuorare quelli del “no”.
Sebastiano Garofalo, il direttore dello stabilimento e Umberto Damiano, portavoce
dell’ Associazione capi e quadri della fabbrica, hanno lavorato notte e giorno, come
militanti della reazione, a convincere gli operai e farli convincere dal notabilato
locale.
Nella testa, nel cuore, dentro le coscienze, dentro le case degli operai si è innalzata ed
estesa un’onda mediatica poderosa ( nazionale e locale, condotta da programmi
televisivi di massa come “ Porta a porta”, dai giornali di larghissima tiratura
nazionale e dai media campani ) volta a criminalizzare gli operai del “no”, a definire
un’eventuale contrarietà all’accordo un’ azione delinquenziale, antinazionale,
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contraria agli interessi dei lavoratori, dei giovani, dei senza lavoro.
Raccontano gli operai che la stessa mafia campana è scesa in campo, velatamente o
meno, a sostenere l’accordo, a convincere le maestranze. La Cisl e la Uil hanno fatto
fuoco e fiamme, sostenute da tutti i poteri forti ed oscuri della Campania, a sostegno
della linea Fiat. Sconcertanti sono state le dichiarazioni di Giuseppe Farina, segretario
generale Fim-Cisl che, mostrandosi entusiasta dell’accordo, ha affermato : “ Abbiamo
firmato un accordo per gli investimenti e per lo sviluppo. Abbiamo fatto l’unica cosa
sensata che si poteva fare per assicurare lavoro e reddito ai lavoratori”. E in pieno
appoggio ai sindacati genuflessi e alla Fiat è intervenuto pesantemente anche il
sindaco di Pomigliano, Lello Russo, che ha così servito Marchionne : “ Dai risultati
del referendum emergerà che la stragrande maggioranza della classe operaia è sana,
non è fatta di scioperanti ad oltranza, di assenteisti, di fannulloni...”.
La Cgil di Epifani non ha certo contribuito, con la sua linea sciatta e moderata, a
rafforzare il fronte del “no”; un dirigente nazionale del PD, come Chiamparino, non
ha trovato meglio da fare, nel fuoco della lotta, che attaccare la Fiom e il suo
segretario generale, Landini. La stessa Fiom, per non mandare i lavoratori al
massacro e per non farli iscrivere nelle liste nere della Fiat, ha consigliato il “si”, con
la promessa che poi i dirigenti Fiom avrebbero comunque continuato la battaglia
contro l’accordo, anche se avesse vinto il “si”.
A tutto ciò, a tutta questa potenza di fuoco volta a spingere gli operai a votare “si”, va
naturalmente assommato un contesto sociale che vede i lavoratori e le loro famiglie
prossimi alla miseria e alla fame, ogni giorno vicini allo spettro della disoccupazione
permanente.
E’ in questo drammatico contesto che va valutato l’esito del referendum; è in questo
contesto che riluce come fosse d’oro il 36% dei coraggiosi “no” e va valutato come
una sconfitta lo scarno 42% dei “si”.
Da qui, da questa controtendenza, da questa resistenza operaia che mette a fuoco una
questione inaspettata ( quella che la classe operaia di Pomigliano d’Arco ha
dimostrato di essere più avanti delle stesse forze politiche e sindacali che si
richiamano al mondo del lavoro) occorre ripartire per rilanciare la lotta.
Il ritorno della Fiat dalla Polonia, dallo stabilimento di Tychi, è stato venduto da
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Marchionne come una scelta volta al bene nazionale, a privilegiare gli interessi dei
lavoratori italiani. Naturalmente, questa demagogia, serve solamente a costruire
attorno alla Fiat un “senso comune” – politico e sociale - favorevole. Serve a
“popolarizzare” la Fiat nella coscienza politica debole; a piegare ai suoi interessi le
forze di governo; a riscuotere le simpatie interessate della Confindustria; ad
addomesticare le forze della sinistra moderata e a far genuflettere l’ormai vasto
sindacalismo giallo.
Ma che gli argomenti “nazionalisti” della Fiat siano puramente strumentali e
demagogici appare chiaro anche dal fatto che la stessa ( debole) borghesia illuminata
italiana e i suoi rappresentanti non risparmia critiche alla linea Marchionne. E’ stato
Eugenio Scalfari a scrivere chiaramente (“La Repubblica” di domenica 20 giugno)
che “ se la Fiat trasferisce la produzione di uno dei suoi modelli da una fabbrica dove
i salari e le condizioni del lavoro sono più favorevoli al capitale investito ad una
fabbrica dove sono invece più sfavorevoli, il trasferimento potrà farsi soltanto se le
condizioni tenderanno a livellarsi, oppure non si farà”.
E così è andata, nel senso che il progetto di trasferimento da Tychi a Pomigliano
d’Arco, dalla Polonia all’Italia, è stato concepito sulla base dell’imposizione di un
accordo sindacato-azienda che porta i lavoratori, il lavoro, indietro di un secolo e
mezzo; li riporta nella fase storica presindacale, precontrattuale, nella fase
antecedente l’organizzazione del movimento operario, socialista e comunista. Li
rigetta nella fase di quella schiavitù operaia già descritta da Engels. E’ come se le
grandi lotte operaie italiane degli anni ’50, ’60, ’70 non ci fossero mai state; è come
se i grandi moti contadini del Meridione d’Italia condotti da Di Vittorio fossero ormai
una pura leggenda; è come se dalla nostra storia fossero ormai espunti, cancellati sia
lo Statuto dei Lavoratori che la stessa Costituzione repubblicana, a cominciare
dall’articolo 41, volto a tutelare il lavoro dallo strapotere dell’impresa e del profitto.
Le proposte concrete che emergono dalla bozza di accordo Fiat e sindacati gialli sono
impressionanti, nella loro essenza reazionaria e antioperaia; l’obiettivo di produrre
280 mila auto l’anno ( 1.052 al giorno; 350 ogni turno, cioè 6.650 in più all’anno e 25
in più al giorno dell’attuale produzione ) passa attraverso una vera e propria
schiavizzazione del lavoro operaio quotidiano: come fossimo di fronte alla
trasformazione della fabbrica in un vero e proprio vespaio umano tutti i tempi di
produzione sono accelerati; ogni azione umana – anche la più semplice – è messa
sotto torsione per essere velocizzata; ogni pausa – quelle essenziali, funzionali alla
stessa riproduzione in fabbrica dell’operaio come pura forza lavoro – è drasticamente
compressa, cosicché la pausa mensa si riduce ai minuti di un panino in piedi e le
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pause relative ai bisogni fisiologici vengono conteggiate in uno spazio pausa generale
che costringe chi lavora alle famose – e qui drammatiche – movenze da Ridolini. Le
notti e le domeniche lavorative obbligatorie, le discriminazioni tra lavoratori insite
nei ridicoli premi legati alla nevrotizzazione della produttività, le punizioni per le
giornate di malattia e lo stesso disconoscimento della malattia, la negazione, di fatto,
del diritto allo sciopero, i livelli salariali tendenzialmente equiparati a quelli delle
aree del mondo ove il capitalismo ha in questi anni delocalizzato per moltiplicare il
profitto : tutto parla di un una fabbrica caserma volta all’estensione parossistica del
profitto attraverso la robotizzazione e la genuflessione operaia.
E’ stato, ancora, un esponente della borghesia illuminata italiana a denunciare con
forza l’essenza reazionaria dell’accordo. Ha scritto Massimo Giannini su “ Affari e
Finanze” dello scorso 21 giugno: “ l’accordo ha fissato paletti dolorosi sulla carne
viva dei diritti civili e costituzionali...”.
E di una drammatica chiarezza è stato Marco Revelli, che ha giustamente scritto: “ Se
fossimo in una condizione di normalità, il dilemma che si trova di fronte oggi la Fiom
a Pomigliano sarebbe risolto in partenza. Essa non può sottoscrivere l’accordo
proposto da Marchionne per il semplice fatto che vi si chiede la liquidazione di diritti
indisponibili. Diritti che nessun sindacato potrebbe “negoziare” per il semplice fatto
che non gli appartengono. Diritti che nessuno, neppure i titolari diretti, può alienare,
perché costitutivi di una civiltà giuridica che trascende le parti sociali e gli individui.
Alcuni di quei diritti – come il fondamentale diritto di sciopero – sono sanciti
costituzionalmente. Altri – come il pagamento dei primi tre giorni di malattia – sono
garantiti dalla legislazione ordinaria. Altri, infine – come la difesa del proprio tempo
di vita da una gestione del tempo di lavoro drammaticamente soffocante e totalitaria –
fanno parte di un livello contrattuale nazionale impegnativo per tutti i contraenti.
L’accettazione di un accordo aziendale che ne sacrificasse anche solo parzialmente
l’operatività, significherebbe una dichiarazione di messa in mora e di inefficacia di
quei tre livelli basilari del nostro assetto gius-lavorativo”.
Vi è una domanda da farsi, di valore centrale : per quali motivi reali la Fiat prova a
tornare dalla Polonia e cerca di reinstallarsi in Italia?
Credo che la profonda complessità del quadro generale in cui la linea Marchionne
tenta di prendere realmente corpo debba sconsigliarci a cercare un solo ed esaustivo
motivo.
Molte sono invece le motivazioni – di carattere sia strategico che di natura più
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contingente – che inducono la Fiat a tornare in patria.
Mettiamone a fuoco alcune, a partire da una più semplice e poco conosciuta: in una
nota d’agenzia “Agir” ( Agenzia giornalistica de “La Repubblica” ) del 15 giugno
scorso, si scrive : “ Fiat : a maggio quota mercato europea al 7,8%. La contrazione
delle vendite è causata principalmente dal calo in Germania..... Nel confrontare questi
dati con quelli ottenuti nello stesso mese del 2009 – sottolineano dalla Fiat – vanno
considerati due fattori. Il primo è che l’anno scorso, in maggio, la Fiat aveva ottenuto
volumi e quote molto positivi in quanto, a differenza di altri concorrenti, era stata in
grado di offrire immediatamente ai clienti una gamma articolata e nuova di vetture a
basso impatto ambientale, che usufruivano degli eco-incentivi. Il secondo fattore è la
mancata produzione quest’anno di circa 8 mila vetture ( 500 e Panda) nello
stabilimento polacco di Tychi a causa dei danni provocati dalle forti inondazioni della
Vistola che hanno interessato gli impianti di alcuni fornitori”.
La notizia è interessante e degna di essere valutata; emergono da essa due questioni
di fondo, che con ogni probabilità si tengono. Da una parte siamo di fronte al fatto
che nel mercato tedesco la Fiat vende meno e, d’altra parte, siamo di fronte al fatto
che ( questione della Vistola che inonda e crea grandi problemi) le infrastrutture, i
supporti logistici e i livelli di tecnicità polacchi sono lontani dalle esigenze Fiat. Dove
si tengono le due questioni ( restrizione del mercato tedesco e, diciamo così, la
Vistola) ? Si tengono in un punto: la qualità, la differenziazione, la certezza della
produzione e i tempi di produzione e di consegna delle vetture – problemi che con
ogni probabilità hanno contribuito alla restrizione del mercato tedesco – non sono più
garantiti al 100% in Polonia. Si pensa dunque di trasferire la produzione in Italia. Ma
ciò che serve è – come nota persino Scalfari – equiparare il livello di sfruttamento
operaio italiano a quello polacco.
E’ una prima motivazione, forse non quella centrale, ma della quale occorre tenere
conto, per cogliere, materialisticamente, il quadro d’insieme.
Un’altra questione è sicuramente riferibile al grado di compenetrazione della Fiat
( della sua intera storia) col potere politico italiano, col governo.
Non è inverosimile pensare che la Panda abbia ormai esaurito la sua forza attrattiva e
non abbia più un mercato futuro. E’ verosimile pensare che la Fiat stia pensando ad
interromperne la produzione e chiuderne gli stabilimenti. Cosa conviene alla Fiat :
chiudere gli stabilimenti in Polonia o in Italia ? Chiudere gli stabilimenti a Tychi
vorrebbe probabilmente dire scontrarsi con una forte opposizione operaia e sindacale
e con l’antipatia e l’avversione del governo polacco. In Italia, chiudere lo
stabilimento potrebbe essere più facile, visto il grado zero di conflittualità sociale che
oggi sono in grado di organizzare la sinistra italiana e il movimento sindacale. Inoltre
– dato forse centrale – in Italia la Fiat non avrebbe contro il governo, ma con ogni
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probabilità otterrebbe dal governo italiano sovvenzioni forti che Marchionne
potrebbe, in prima battuta, utilizzare per far proseguire per qualche anno l’agonia
della produzione Panda, spegnere quei focolai di lotta che potrebbero accendersi
( anche attraverso qualche ammortizzatore sociale) e poi reinvestire le sovvenzioni in
una nuova linea produttiva.
Un’altra questione da prendere in considerazione è la possibilità che la Panda –
seppure nella sua ultima fase di vita o proprio per questo – potrebbe essere meglio
venduta nel mercato interno e vicino alla sorgente produttiva, piuttosto che in mercati
lontani dagli stabilimenti e non più attratti dal tipo di vettura.
Sono, queste descritte, questioni apparentemente a se stanti e forse minori, ma che
convergono, tuttavia, in un punto di sintesi alto, in un punto solidale, con la questione
centrale che la vicenda Fiat, Pomigliano d’Arco evoca, significa.
Il punto centrale è che, oggi come ieri, Marchione come Valletta e Romiti, la Fiat si
offre oggettivamente, in Italia e attraverso la battaglia di Pomigliano d’Arco, come la
testa d’ariete del più duro capitalismo italiano, volto alla sottomissione definitiva
della classe operaia e dell’intero mondo del lavoro, nell’obiettivo di sacrificare i
salari e restringere i mercati interni e nell’ottica strategica di vincere la concorrenza
capitalistica internazionale e aggredire e conquistare – come obiettivo privilegiato – i
ben più vasti mercati dei paesi emergenti, ove centinaia di milioni di nuovi possibili
acquirenti – in India, in Cina, in Brasile - si affacciano sui differenti mercati.
E’ questa, quindi, la sfida lanciata dalla Fiat : iniziare, da Pomigliano d’Arco, a
dettare, per tutto il mondo del lavoro del nostro Paese, le nuove regole
dell’iperliberismo, per la trasformazione totale e definitiva degli uomini e delle
donne, dei lavoratori e delle lavoratrici, in automi dediti silenziosamente alla
produzione del massimo profitto capitalistico.
La Fiat sferra questo attacco in una fase molto favorevole: al suo fianco vi è l’Unione
europea di Amsterdam e della Bolkenstein; vi è la Confindustria, il governo
Berlusconi, tutte le varie pulsioni volte al cambiamento della Costituzione ( specie
nei suoi articoli che difendono il lavoro e limitano l’impresa); vi è il sindacato giallonero
della Cisl e della Uil, l’accidia della Cgil, il liberismo del PD, l’anemia della
sinistra.
Due lezioni, centrali, provengono dalla vicenda Pomigliano : la mancanza, in questo
Paese, di un forte partito comunista in grado di offrirsi come motore e anima di una
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vasta sinistra di classe capace di sostenere ed estendere il conflitto e la mancanza,
ormai drammatica, di un sindacato di classe e di massa. Se nel quadro sociale,
politico e sindacale vi fossero stati, ora, questi due soggetti mancanti; se questi due
soggetti fossero stati presenti e attivi, se si fossero battuti, come senza indugi
occorreva, per il “no” all’accordo di Pomigliano, è molto probabile che quel
coraggioso 36% di “no” sarebbe risultato vincente e avrebbe messo un primo bastone
tra le ruote al disegno restauratore e imperialista dell’attuale capitalismo italiano.
E’ del tutto evidente, dunque, che le aree più avanzate e combattive, i quadri operai e
intellettuali consapevoli, i militanti comunisti e del sindacalismo di classe sono oggi
di fronte a un doppio compito, difficile ma ineludibile: costruire un partito comunista
di quadri con una linea politica di massa e costruire un sindacato di classe e di massa.
Questioni che non si possono più ( lo diciamo a tutti i comunisti e le comuniste
ovunque collocati e collocate, lo diciamo ai compagni della Fiom, delle aree più
avanzate della CGIL e del sindacalismo di base) porre solo in termini teorici; dire,
cioè, che “ è vero che teoricamente sia il partito comunista che un sindacato di classe
sono oggi necessari, ma...”.
No: è il tempo di agire, di unirsi e costruire.
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