linea Rossa

(nr.14 - gennaio-febbraio 2000)

 

LA MEMORIA TRADITA



Angiolo Gracci: LA RIVOLUZIONE NEGATA - Il filo rosso della Rivoluzione italiana,
La Città del Sole, 1999
PREMESSA, pp. 17/23


 


"Ai lettori"



Il presente saggio storico - breve e a carattere divulgativo - ha, a sua volta, una storia che può aiutare il lettore a comprenderne le ragioni e il senso. Scritto, infatti, nei primi anni '50, quasi mezzo secolo fa, rispose all'insopprimibile impulso di reagire alla persecuzione anticomunista della D.C.  scelbiana posta in essere all'indomani dell'insurrezione partigiana e popolare del 25 aprile 1945 che aveva concluso, in Italia, la disastrosa Seconda guerra mondiale.
Il decennio successivo vide l'insediamento e il consolidamento al potere di una massiccia restaurazione moderata che si sarebbe protratta, di fatto, fino ad oggi, alle soglie del XXI secolo.
Ciò avvenne attraverso una precisa strategia elaborata, da tempo, nelle linee essenziali, oltre Oceano e concertata, per la pratica attuazione, con i vertici collaborazionisti delle tradizionali forze conservatrici del nostro Paese. Queste, mantenutesi in vita e rafforzatesi con la dittatura fascista e la sua aggressiva politica imperialista, nonostante la catastrofe bellica di cui erano le prime responsabili, riuscirono a riciclarsi, in buona par te, nella medesima Resistenza: dalle alte gerarchie capitaliste e agrarie a quelle ecclesiastiche, dagli apparati dirigenti della burocrazia pubblica e militare alle vecchie "cupole" della criminalità organizzata.
Così, poggiando sull'impunità e l'attivo sostegno assicurato dal poderoso dispiegamento delle forze armate e della propaganda degli alleati angloamericani "liberatori"-occupanti, stragi banditesche, assassinii mafiosi ed eccidi polizieschi riuscirono a bloccare, nel Meridione, il movimento di riscossa delle masse contadine da sempre affamate di terra e, nel Settentrione, il
movimento operaio che era stato avanguardia cosciente e spina dorsale dell'intera lotta antinazifascista.
Come, ormai, ampiamente documentato, a partire dalla fine degli anni '60 fece seguito la lunga stagione delle "stragi di Stato" promosse dai servizi segreti indigeni assoggettati ai piani criminali di destabilizzazione programmati dai servizi statunitensi e fatte eseguire da manovalanza neofascista. Non a caso tutti i mandanti e gran parte degli esecutori sono rimasti impuniti.
Al  primo governo unitario postbellico di Ferruccio Parri, ultima espressione del potere politico del Comitato nazionale di liberazione (C.N.L.), fu concessa brevissima vita. I partiti storicamente rappresentativi delle masse popolari lavoratrici, il P.C.I. e il PSI, dapprima furono estromessi dall' esecutivo e, poi, ricorrendo anche alla corruzione dei vertici, indotti a rompere il prezioso patto unitario che, assicurando la condizione primaria per portare avanti le parole d'ordine di "libertà, democrazia e indipendenza", aveva consentito di giungere alla vittoriosa insurrezione del "25 aprile". Sorte analoga subì la stessa grande organizzazione sindacale unitaria, la Confederazione generale italiana dei lavoratori (C.G.I.L.).
Rivolgendosi ai milioni di reduci e disoccupati, il capo del nuovo governo, Alcide De Gasperi, indicò ,per sopravvivere, la via dell'emigrazione. L'avvento della Costituzione repubblicana fondata sul lavoro (1 gennaio 1948) venne sprezzantemente definito dal ministro degli interni Mario Scelba come una "trappola". Irridendo al giuramento dato veniva tradito, così, il  preciso dovere istituzionale che imponeva, invece, l'impegno, in prima persona, per attuare, difendere e fare rispettare il nuovo solenne "patto sociale".
L'epurazione dell'apparato statale e della pubblica amministrazione - saturo di gerarchi fascisti e quadri politici e militari già attivi strumenti della ventennale dittatura e della filonazista Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.) - si risolse in una autentica beffa mentre, per contro, si dispiegava la rappresaglia persecutoria nei confronti di migliaia di partigiani. Gli stati maggiori delle forze armate e di polizia venivano sottoposti al controllo, alle direttive e ai superiori interessi, oscuri e inconfessabili, della nuova potenza straniera egemone, gli Stati Uniti d'America. L'imponente movimento popolare dei "partigiani della pace"- sorto per contrastare il continuo, minaccioso brandeggiare, sull'intero mondo, di un ricatto atomico che evocava le ecatombi di Hiroshima e Nagasaki - fu fermato dalla violenza e dalla provocazione che profittavano della incerta, debole risposta delle centrali politiche dell'opposizione.
L'alto clero - che, nel ventennio, aveva tratto grandi benefici e nuovo potere schierandosi a sostegno della dittatura fascista - consacrò, benedicente, il nuovo scenario con ampio ricorso a miracoli tra le popolazioni più arretrate e lanciando anatemi e scomuniche contro le avanguardie democratiche e rivoluzionarie che, per un quarto di secolo, avevano condotto e sostenuto il peso della durissima, sanguinosa lotta politica contro la dittatura fascista e della Guerra di liberazione. Esse, ora, dovevano essere rese odiose alle masse e, quindi, isolate. In questo quadro, il ricostruito fronte delle forze reazionarie moderate nazionali e internazionali riuscì ad assicurare il proprio reinsediamento al potere "vincendo" quelle elezioni politiche del 18 aprile 1948 che una delle figure più rappresentative del lungo potere D.C., Oscar Luigi Scalfaro, ha inteso esaltare, da presidente della Repubblica, nel suo ultimo discorso di fine d'anno (31 dicembre 1998), come quelle in cui "vinse la libertà e [...] la democrazia fu riservata a tutti".
Questa impudente affermazione - espressa usando strumentalmente l'autorità conferita dal ricoprire la massima istituzione repubblicana - avrebbe voluto dare una prima impossibile legittimità democratica a quello che fu, invece - con le elezioni
politiche del 18 aprile 1948 - un vero e proprio atto di sopraffazione consumato dalle forze della reazione internazionali e
nazionali attraverso una mobilitazione condizionatrice-coercitrice, di imponenza mai vista, guidata dall'imperialismo U.S.A. con
estrema, cinica determinazione contro la capacità di libera determinazione del popolo italiano.
D'altra parte, proprio quelle prime elezioni politiche post-fasciste dimostrarono l'inequivocabile natura reazionaria di quanti avevano fatto tutto e di tutto per vincere ad ogni costo. Non a caso, tra l'altro, esse furono suggellate, poche settimane dopo, non solo dal tentativo d'assassinio di Palmiro Togliatti, l'allora prestigioso esponente nazionale del P.C.I.. I comunisti italiani, l'anno successivo, sarebbero stati scomunicati e additati come i nuovi figli del diavolo ripetendo così l'anatema che, un secolo e mezzo prima, aveva bollato i nostri patrioti giacobini. Intanto l'ondata repressiva - in una Italia già inserita nel Patto atlantico - colpì migliaia e migliaia di operai, lavoratori, militanti insorti spontaneamente dopo l'attentato neofascista al loro massimo dirigente.
Fu, dunque, in tale contesto epocale che un mai precisato ma, sicuramente, vastissimo numero di veterani della Guerra di liberazione antinazifascista - rei d'avere combattuto nelle brigate d'assalto "Garibaldi", nei gruppi e nelle squadre d'azione patriottica (G.A.P. e S.A.P.) e di militare nelle file comuniste - furono espulsi dai loro posti di lavoro, o costretti, o indotti a lasciarlo. Questo si verificò, soprattutto, nelle forze armate e di polizia, tra il personale degli arsenali militari e, più in generale, in tutti i settori "delicati" dell'apparato dello Stato nonostante che questo si fosse costituzionalmente trasformato, da dittatura monarco-fascista, in repubblica democratica fondata sul lavoro e sulla sovranità popolare.
Quale giovane ufficiale in servizio permanente - che dopo il rimpatrio dall'Albania e la successiva invasione nazista del Paese, aveva disertato, per unirsi, in Toscana, ai partigiani - non sfuggii a quella persecuzione, il cui particolare accanimento traeva giustificazione dal fatto che, nella Resistenza, ero stato comandante di una delle formazioni garibaldine più combattive.
Del resto, avevo rifiutato di adattarmi alle mutate circostanze rendendomi compatibile col "nuovo ordine" e avevo ritenuto
doveroso, invece, continuare, in qualche modo, a resistere. Disarmate, smobilitate e disperse le formazioni partigiane del
Corpo Volontari della Libertà, primo autentico esercito popolare volontario nella storia nazionale e punito, inquisito, isolato e trasferito da un capo all'altro della Penisola, l'unica via per non arrendermi e mantenermi coerente con quegli ideali sociali e patriottici che la lotta partigiana aveva maturato in senso più realistico, mi apparve essere la reimmersione culturale nella
memoria storica del popolo cui sentivo fortemente di appartenere e nel cui interesse e per le cui antiche speranze di rinnovamento mi ero battuto. Non poteva essere stato, certo, per nulla l'aver visto cadere, al mio fianco e di fronte, da una parte e dall'altra della "barricata ", tanti miei simili, coetanei e perfino più giovani. Tutti, li avevo sentiti affratellati nella morte, vittime, pressoché tutti innocenti, di una sola barbarie, la guerra imperialista.
Così, ripercorrendo a ritroso le pagine della nostra storia, e con l'animo ancora emotivamente scosso anche da quanto avevo visto e appreso vivendo alcuni anni, a seguito di un trasferimento punitivo, nel più lontano Meridione, mi ritrovai alle origini del Risorgimento, al manifestarsi del primo movimento rivoluzionario significativamente caratterizzato in senso nazionale e unitario. Immedesimandomi, fui indotto a riflettere sulla straordinaria, drammatica vicenda dei repubblicani giacobini napoletani che, sebbene esigua avanguardia, sorretti da una fortissima fede ideale, davvero avveniristica, davanti alle soverchianti forze messe in campo dalla conservazione, avevano alzato sul loro tricolore, con ammirevole coraggio, le magiche parole di "libertà e uguaglianza" difendendole, poi, fino alla morte e al martirio, una volta rimasti soli, abbandonati a se stessi, dopo il ripiegamento verso il Settentrione dei "liberatori" francesi.
Ricercai, allora, ovunque mi fosse possibile, libri e testimonianze su quel periodo decisivo avvertendo, contemporaneamente, il bisogno incoercibile di reinterpretarlo attraverso le speranze e le esperienze che avevo acquisito combattendo nelle file dell'avanguardia più politicizzata delle masse popolari italiane nell'ultima fase storicamente rilevante, quella resistenziale, di cui, appunto, ero appena reduce. Mi apparve denso di messaggi il fatto che questo ampio movimento rivoluzionario delle classi subalterne del nostro Paese, il primo a livello nazionale, avesse avuto come suo esordio, a Napoli, le "quattro giornate" insur rezionali del settembre-ottobre 1943. Avvertii, allora, come di esse, di questo primo segnale di riscossa dell'intero Paese, fos sero stati il preannuncio proprio i patrioti giacobini napoletani e del Meridione.
Obbedendo, perciò, ad un'intima esigenza, volli esprimere in uno scritto l'essermi sentito, in qualche modo, testimone attuale di quegli eventi, esaltanti e tragici, che avevano avuto come interpreti altri italiani, quei primissimi patrioti rivoluzionari.
Ricordandoli con ammirazione, dai giorni e dai luoghi del loro sacrificio sentivo giungere come un' eco, una voce che, per quanto remota, chiedeva di non essere dimenticata, ma considerata presente, di essere accolta e confluire legittimamente, in conseguente continuità, nell'alveo più ampio e corale dell'epilogo parzialmente vittorioso della recente lotta resistenziale. Una lotta sostenuta dal nostro popolo per la sua liberazione dallo sfruttamento, dall'ignoranza, dai privilegi e dall'abusivo potere di minoranze privilegiate e corrotte e dalle nuove forme assunte dal predominio imperialista straniero. Una lotta che aveva inteso spezzare quelle stesse catene che anche i giacobini di Napoli e del Meridione avevano tentato di rompere nel fatale 1799.
A distanza di tanti decenni dall'aver soddisfatto quella mia esigenza psicologica e intellettuale, avevo praticamente dimenticato il dattiloscritto tra le carte accumulate nel corso di un 'intensa vita militante.
È stato, invece, con l'approssimarsi delle celebrazioni per il  secondo centenario della Repubblica Napoletana che, con l'ap parire di articoli e recensioni evocanti personaggi e tematiche  relativi alla sua storia, mi sono ricordato come io stesso me ne fossi interessato tanto tempo prima. Ricuperato quel breve saggio, sono stato, poi, esortato a farlo conoscere, a socializzarlo. Rileggendolo, mi sono reso conto, d'altra parte, ch'esso, pur nella sua modestia, avrebbe potuto essere utile strumento di divulgazione e di riflessione su una parte essenziale della nostra memoria storica collettiva oggi così assopita, distratta e gravemente minacciata dalla devastazione culturale condotta, metodicamente, dalle forze della globalizzazione imperialista.
Nella conseguente decisione di aggiornare e rielaborare alcune parti del testo per sottoporlo, quindi, al pubblico, mi sono  sentito sostenuto, in modo determinante, dal fondamentale insegnamento gramsciano secondo cui, in Italia, il primario stru mento utilizzato dalle classi sfruttatrici per dominare è stata proprio l'ignoranza della storia nazionale coltivata nelle masse popolari.
Ed è stata, anche, la convinta compenetrazione in quelle pagine, apparentemente lontane, della nostra storia, che mi ha aiutato a superare l'ultima esitazione: se sarei riuscito o meno a far emergere e rendere evidente una rilettura del bicentenario 1799-1999 come rappresentazione obiettiva di ciò che avevo e ho profondamente recepito essere stato e continuare ad essere il "filo rosso" che ha percorso almeno tutta la vicenda storica dell' Italia contemporanea: il "filo rosso" delle profonde, insoddisfatte tensioni rivoluzionarie, che, a mio avviso, unisce dialetticamente, ma indissolubilmente, la vicenda dei partigiani "giacobini" della Repubblica Napoletana, all'alba del Risorgimento,  a quella dei partigiani "garibaldini" della relativamente recente Resistenza popolare, alba, a sua volta, della lungamente agognata Repubblica di tutti gli Italiani. Una repubblica dalla democrazia ampiamente incompiuta, perché non vede, ancora, "tutti i lavoratori" al potere, così come, invece, esige, inequivocabilmente, la sua insidiata Costituzione.
Buona lettura, dunque, amico lettore!

ANGIOLO GRACCI

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