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LA FASE, IL FUMO DI VENDOLA E L'ESIGENZA DI UN PARTITO COMUNISTA
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Cari lettori e care lettrici, cari compagni/e : una versione più breve
dell’articolo che segue è stata inviata da un po’ di tempo al quotidiano il
Manifesto. Nell’attesa della pubblicazione il compagno Giannini ha chiesto al
nostro sito di pubblicarne la versione integrale. Richiesta che abbiamo ritenuto
di accogliere. *
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Fosco Giannini -----
C’è una domanda che, sulle pagine del “Quotidiano comunista Il
Manifesto ”, ci sentiamo particolarmente autorizzati a formulare: come si può
porre, oggi, la questione dell’esigenza sociale e storica del partito comunista?
Sinteticamente, crediamo si possa porre a partire da tre questioni essenziali:
primo, attraverso la definizione della fase; secondo, attraverso una semplice
domanda: esiste, in Italia, un partito comunista all’altezza dell’odierno
scontro di classe? Terzo: è ancora attuale la forma partito? E più
specificatamente: è ancora utile alle masse, al proletariato, organizzarsi nel
partito comunista?
La fase: essa, sul piano internazionale, è ancora e pesantemente segnata da una
crisi capitalistica di sovrapproduzione e da un’acutizzazione delle
contraddizioni interimperialistiche che spingono l’attuale capitalismo ad
accentuare la propria offensiva iperliberista, antioperaia e contraria allo
stato sociale, un ciclo capitalista che spinge i padroni – attualmente – a
rifiutare ogni via neo keynesiana, ogni compromesso tra capitale e lavoro.
Questa tendenza generale capitalistica si fonde, nell’area dell’Unione europea,
con la feroce pulsione del capitalismo sovrannazionale europeo a costituirsi
come nuovo polo unitario ( appunto: l’Ue del grande capitale europeo e della
Banca centrale europea) volto a battere la concorrenza degli altri poli
capitalisti mondiali nella conquista dei mercati internazionali. La somma di
queste due spinte forma una forza d’urto antisociale che si abbatte come un
uragano sui popoli europei : il disegno di un ulteriore abbattimento dei diritti
e dei salari e di una cancellazione delle residue forme del welfare si applica
senza pietà sul popolo greco, portoghese, spagnolo, ungherese, incarnandosi, in
Italia, nell’attacco della Fiat a Pomigliano d’Arco e nella Finanziaria
Tremonti.
Ma in Italia, alla duplice spinta liberista del capitale ( quella generale e
quella conseguente alla “necessità” dei vari capitalismi europei di farsi unico
polo) si aggiunge una negativa peculiarità : quella di un capitalismo
particolarmente debole, ridotto ad un “nanocapitalismo” anche dalle politiche di
smantellamento della grande industria attuate in gran parte dai governi di
centro sinistra degli anni ’90, impossibilitato a reggere la concorrenza
internazionale e volto a risolvere i propri problemi non attraverso gli
investimenti e l’innovazione tecnologica ma attraverso nuovi cicli di
supersfruttamento operaio e precarizzazione del lavoro che escludono per un
tempo sicuramente non breve nuovi compromessi di natura socialdemocratica tra
capitale e lavoro.
Ed è a partire da questo, ultimo, assunto che la borghesia italiana si pone il
problema della propria rappresentanza politica: negli ultimi vent’anni è stato
eletto Berlusconi quale rappresentante degli interessi borghesi e quale
mediatore tra gli interessi degli ultimi, grandi, gruppi capitalistici e la
marea nanocapitalista. Il problema è : oggi che Berlusconi pare essere al
capolinea, chi sceglierà la borghesia quale suo alfiere ? Vediamo come, in
questa fase, aree della borghesia ( ad esempio il gruppo De Benedetti, con
l’Espresso e La Repubblica ) stiano palesemente cercando di cambiare cavallo,
lavorando per un’alternativa al PDL imperniata su di un centro sinistra guidato
da un “ uomo nuovo”: Nichi Vendola.
E’ in questo contesto – segnato da un duro dominio capitalista volto a cambiare
spalla al proprio fucile e da una “sinistra” italiana disponibile a farsi nuovo
fucile della borghesia - che un partito comunista ( di quadri, di massa e di
lotta ) diviene una necessità sociale e politica e non una mera speculazione
ideologica.
Ed è questo assunto che ci spinge a porci il secondo quesito: esiste oggi, in
Italia, un tale partito? Con ogni evidenza la risposta è no. Allo sciagurato
scioglimento del PCI tentammo di rispondere con il progetto di una “rifondazione
comunista”. Tale progetto è fallito: la massa critica originaria di Rifondazione
si è divisa in cento rivoli inessenziali; le “innovazioni politiche e teoriche”
di Bertinotti hanno svuotato di senso il PRC; i due partiti comunisti residui (
PRC e PdCI) non hanno né il necessario radicamento sociale né la possibilità di
trasformare – perché assenti – il parlamento borghese in cassa di risonanza
della lotta di classe. Siamo di fronte ad una contraddizione : la fase, la lotta
di classe condotta dai padroni a spade sguainate richiede oggettivamente il
Partito comunista ed esso non c’è, non è in campo. Primo compito dei comunisti,
dunque, è di ricostruire il loro partito, unendo la diaspora comunista ( a
partire dall’unità tra PRC e PdCI) e delineando un profilo politico, teorico,
rivoluzionario all’altezza dei tempi e dello scontro di classe. Chi scrive crede
che ve ne siano le possibilità oggettive e che il disimpegno soggettivo di chi
si definisce comunista da questo compito equivalga ad una resa, se non peggio.
Terza questione: è ancora attuale la forma partito? E’ ancora necessario, per il
movimento operaio complessivo, organizzarsi in partito politico?
Evochiamo tale questione non perché abbia dignità politica e teorica ( nel senso
che l’esigenza di organizzarsi di fronte al dominio del capitale non è solo una
verità storica, ma è – oggi più che mai – un’esigenza incisa nella carne viva e
sofferente del proletariato), ma solo perché essa è ormai uno dei motivi di
fondo della politica reazionaria italiana, che tenta su ogni fronte di
organizzare consenso a partire dal populismo e dal leaderismo. Non si rifiuta di
essere un partito - a partire dal nome - anche il Popolo della Libertà di
Berlusconi? E non è proprio Vendola ( che non sta lavorando per il rafforzamento
di una sinistra di classe, ma punta a vincere le primarie di un centro sinistra
– avente come perno un PD liberista - che nulla ha di alternativo e col quale i
comunisti, allo stato delle cose, non potrebbero certo governare) a sparare a
palle incatenate contro la forma partito, ad organizzare consenso attorno alla
propria persona (e non attorno ad un programma di cambiamento) innanzitutto a
partire dalla demonizzazione qualunquista dei partiti organizzati, proponendosi
come nuovo caudillo populista di uno schieramento di “sinistra” liberista e
bipolarista ?
Il punto è che vi è un tentativo del capitale di far retrocedere la storia di un
paio di secoli, riportandola nella fase in cui il movimento operaio era
pressoché schiavizzato e la formazione dei partiti politici era fortemente
osteggiata sia dalla residua cultura aristocratica che da quella borghese
nascente, che propagandavano che solo i ceti alti avessero diritto di essere
rappresenti politicamente e che era molto meglio, per difendere i privilegi e il
profitto, che la classe operaia non si organizzasse, che quella “parte” non
avesse “partito”. E occorre, dunque, cogliere il nesso reazionario che oggi , in
modo palese e significativo, si va pericolosamente ricostituendo tra l’attacco
generale che il capitale porta al lavoro e l’attacco che la cultura dominante
porta alla forma partito.
Consideriamo il populismo e il leaderismo ( di destra e di “sinistra”) il segno
dei tempi, dell’egemonia borghese. Consideriamo l’attacco ai partiti parte
dell’attacco generale alla democrazia, alla Costituzione repubblicana e agli
interessi dei lavoratori. E, all’opposto, pensiamo che sia ora di riconsegnare
alla “classe” un partito comunista degno di questo nome, un partito di lotta, di
classe e rivoluzionario, perno di una vasta e combattiva unità di sinistra
anticapitalista.
agosto 2010