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Angiolo Gracci (fondatore):la vita, le opere
Ferdinando Dubla (direttore):biografia e scritti
 
 

 

Ricostruire il partito comunista, appunti per una discussione

(Diliberto – Giacchè – Sorini)

 

L’aggressione neocoloniale delle potenze NATO – Italia compresa, che ancora una volta viola l’art. 11 della Costituzione – contro la Libia, da     tre mesi sottoposta al “bombardamento umanitario” ha già provocato migliaia di vittime civili e distrugge ospedali, scuole, asili, infrastrutture, disseminando il paese di uranio impoverito

-         La grande crisi irrisolta del sistema capitalistico mondiale falcidia salari e occupazione

-         La crisi dell’euro mette in ginocchio interi paesi, dalla Grecia al Portogallo

-         La duplice crisi italiana: alla crisi economica, che condanna ad una precarietà senza futuro le nuove generazioni, si unisce la crisi del sistema politico fondato sul bipolarismo e il maggioritario, che ha consentito l’ascesa del berlusconismo

-         Le resistenze e le rivolte popolari, dalla Grecia al mondo arabo

-         Il sussulto democratico della straordinaria vittoria al referendum contro la privatizzazione dell’acqua riafferma il principio della priorità del pubblico rispetto al privato

 

Socialismo o barbarie rimane l’alternativa di fondo della nostra epoca

Nelle contraddizioni esplosive di un mondo dominato dal sistema del capitale e dall’imperialismo guerrafondaio si ripropone la necessità di un pensiero strategico, di un agire politico alto, alieno dalle meschine beghe del politicismo quotidiano, di un’organizzazione politica capace di unire spontaneità e direzione consapevole, promotrice di una profonda riforma intellettuale e morale, per un radicale rovesciamento dei rapporti di produzione capitalistici: un partito comunista degno di questo nome, erede delle più avanzate esperienze del movimento operaio del Novecento, capace di affrontare le sfide che la modernità grande e terribile del XXI secolo ci pone.

Andrea Catone

Introduzione

         Vienna, 1815

 

Napoleone e la Francia sono stati appena sconfitti, e questa volta definitivamente. Le potenze alleate si accingono a procedere nella grande opera restauratrice.

Tutto deve tornare come prima.

Prima di Napoleone, certo. Ma anche prima della Rivoluzione francese dell’ ’89, prima della vittoria della borghesia, del Terzo Stato, contro nobiltà e clero reazionari.

Tutto come prima.

Si riallineano, dunque, i confini tra gli Stati a quelli che erano precedentemente alle guerre (e alle conquiste) napoleoniche. Tornano le antiche case regnanti sui vecchi regni, e financo sui ducati e i granducati, protettorati inermi dell’Impero: quello austriaco di Metternich.

Tornano riti, liturgie, corti e feste danzanti, matrimoni dinastici, carrozze, parrucche e cappelli. Tornano i padroni che non producono ricchezza e i subalterni che invece la producono (e questo, alla fine, come si sa, sarà decisivo).

L’obiettivo, dichiarato, proclamato, teorizzato, è riportare indietro le lancette dell’orologio della storia.

I liberali, rivoluzionari pericolosi, sono in rotta ovunque nella vecchia Europa: quella stessa vecchia Europa nella quale si aggirerà, di lì a poco, un nuovo e ben più temibile fantasma: ma allora gli spettri da esorcizzare e colpire, incarcerando, fucilando, bandendo o esiliando, sono i liberali e le loro sette, Carboneria in testa.

I grandi della terra che conta, ancora l’Europa appunto, decidono di compiere però un passo in più: inedito e inaudito. Una “Santa Alleanza” si congiunge tra loro. Avrà il compito di reprimere militarmente ogni insorgenza rivoluzionaria, in qualunque parte del mondo conosciuto e dominato. Gli Stati reazionari si potranno continuare a fare la guerra tra loro – come infatti continueranno serenamente a fare per tutto l’Ottocento, con orribili massacri – ma si uniscono per debellare, preventivamente, qualunque tentativo di insurrezione liberale o popolare: tra il 1820 e il 1821 lo scopriranno presto a loro spese i rivoluzionari del regno di Napoli, ultime propaggini di Murat e dei repubblicani del ’99 – quasi tutti intellettuali o ufficiali dell’esercito – che saranno schiacciati nel sangue dalle truppe austriache prontamente accorse in soccorso del re.

L’ubriacatura repubblicana e liberale, che dalla Francia si era propagata con le sue idee perniciose e blasfeme, non potrà ripetersi più. Mai più.

Lo pensano tutti. Ne sono convinti i sovrani e la Chiesa, la nobiltà. Ma ne è convinta anche la gran parte delle popolazioni del tempo. Lo annotano le gazzette. E’ convinzione diffusa, scontata. Senso comune.

Quelle idee – libertà, eguaglianza, fraternità – hanno rappresentato un mero incidente della storia, una parentesi, un momento di follia. Tutto è tornato come prima e tutto rimarrà per sempre come era prima, immutabile nei secoli, perché nel 1815 quello è l’ordine delle cose presenti, ma anche di quelle future.

E loro, i liberali? Pochi, pochissimi, dispersi, rovinosamente sconfitti, molti in esilio: gli altri alla macchia, in clandestinità o nelle galere.

Sconfitti, esigua minoranza, singoli velleitari sognatori, intellettuali o, come detto, militari che nelle fila napoleoniche avevano assorbito quelle idee sovversive.

Per decenni, tentativi insurrezionali isolati e – appunto – del tutto velleitari si susseguono in Europa e in un’Italia che non è ancora tale, come punture di spillo soffocate senza alcuna fatica dalla Restaurazione trionfante.

Tentativi illusori, spesso sconfitti dalla reazione di quel popolo che avrebbero voluto liberare da catene millenarie: contadini che scambiano i rivoluzionari per briganti. E’ storia ben nota.

Eppure.

Eppure quelle poche sparute sconfitte avanguardie – per il solo fatto di esistere e di resistere – svolgono un compito storicamente immane, decisivo: tengono in vita un’idea di trasformazione, la speranza di un riscatto, di un sovvertimento dello stato di cose presente.

No, come la storia ottocentesca da lì a poco si sarebbe presa la briga di dimostrare, niente poteva essere immutabile: nessun motore immobile avrebbe più dominato il mondo.

La borghesia trionferà nel giro dei successivi trent’anni, sovvertirà, a modo suo, il mondo, diventerà classe dirigente e scoprirà a sua volta una nuova classe subalterna. Il ’17 in Russia – in fondo – è già alle porte: dal 1848 del Manifesto di Marx ed Engels saranno trascorsi solo 70 anni.

 

Nel secolo breve che abbiamo alle spalle, l’89 – un altro, ben diverso ’89 rispetto a quello della Rivoluzione francese – riproduce, per ironia aspra della storia, quel lontano 1815.

Crollata l’Unione Sovietica, i grandi del mondo, incarnati in un nuovo Impero globale, quello degli Stati Uniti d’America, hanno anch’essi ritenuto di poter riportare indietro le lancette dell’orologio della storia.

Sono stati ridisegnati i confini tra gli Stati, come essi si configuravano, nella sostanza, precedentemente alla Rivoluzione dell’Ottobre sovietico. Le nuove classi dirigenti sono espressione delle vecchie (ed in qualche caso, sono stati riesumati perfino i re o i figli dei vecchi re, reinventati come presidenti di repubbliche dell’Est europeo subalterne al nuovo ordine mondiale).

Il capitalismo, uscito vincitore dalla Guerra fredda, si è proclamato fine della storia, ordine immutabile nei rapporti tra le classi. L’ideologia del mercato è divenuta – anche per grandi masse europee, complice uno strumento potentissimo rappresentato dai media nelle società contemporanee – la forma dominante del senso comune.

Nella crisi irreversibile delle vecchie organizzazioni internazionali, figlie degli assetti superati della fine della Seconda Guerra mondiale, una nuova Santa Alleanza può intervenire ovunque nel mondo, militarmente, preventivamente o meno, economicamente, pervasivamente – verrebbe da dire: permanentemente – per reprimere chiunque sollevi la testa.

La guerra si è sostituita alla diplomazia ed alla politica estera, ribaltando la vecchia teoria di von Clausewitz: la guerra non è più la prosecuzione della politica in altre forme, bensì ormai è la forma stessa della politica.

Chi si oppone, ancora una volta, sembra un folle, un illuso, sognatore di utopie travolte dalla storia.

Pochi, sconfitti, in rotta. Bersaglio di facili ironie, divisi tra loro – come sempre, inevitabilmente, accade dopo le dure repliche della storia –, privi di guida e di riferimenti certi. Alcuni, ripiegati in se stessi. Altri, passati al nemico: in soccorso del vincitore… Altri ancora, alla ricerca di un ritorno alla purezza salvifica delle origini – tentazione ambivalente: vi è chi vorrebbe “saltare” il Novecento, chi viceversa vi cerca scolasticamente un appiglio identitario, senza cogliere le novità di un nuovo contesto nazionale e internazionale: operazioni tutte antistoriche e dunque velleitarie, foriere di ulteriori sconfitte.

 

Ma vi è ancora, invece, chi, testardamente, ma soprattutto consapevolmente resiste.

Perché la storia non si annulla: e questo vale per chi, oggi dominante, ne ha decretato imprudentemente la “fine”; ma anche per chi pensa che, guardando semplicemente indietro, si possa rincominciare con maggior profitto.

No. La storia – tutta la storia, anche quella delle nostre sconfitte – non può essere né cancellata, né piegata, né rimossa, né – soprattutto – abolita per il futuro.

E la storia della Restaurazione ottocentesca dimostra che i rapporti tra le classi, la forza intrinseca dei meccanismi produttivi e del relativo sfruttamento, la volontà di indipendenza dei popoli, sono più forti e testardi dei tanti esegeti dell’immutabilità dello stato di cose presente.

 

Questo il compito storico – parola, una volta tanto, non enfatica, ma terribilmente realistica e concreta – di chi è oggi comunista all’alba del terzo millennio.

Siamo noi. Sconfitti. Consapevoli della sconfitta. Ma non piegati.

Siamo noi: che, ancora una volta, teniamo viva un’idea di trasformazione in un’epoca buia, ma della quale già si vede, a livello planetario, il termine.

Comunisti.

Comunisti consci, oggi, in Italia ed in Europa, di vivere momenti di minorità e di marginalità, ancorché in modi e dimensioni differenti nei diversi Paesi.

Ma certi, al contempo, che le contraddizioni di classe, il conflitto tra capitale e lavoro e le idee che supportano quest’ultimo contro il primo non sono affatto scomparsi – né le contraddizioni, né le idee – con l’ ’89.

 

Questo libro è nato così: da questa consapevolezza che guarda al futuro.

Per questo motivo, esso è dedicato e destinato soprattutto ai giovani: quelli che hanno vent’anni e sono nati in coincidenza o dopo il crollo del muro di Berlino.

Queste ragazze e questi ragazzi non ne portano, dunque, sulle spalle alcuna maceria.

Potranno rincominciare a lottare e sperare, molto più di noi che abbiamo scritto queste pagine.

Non, dunque, ancora comunisti, come se essere tali significasse un residuale ancoraggio al passato, la prosecuzione stanca di qualcosa che va inesorabilmente ad esaurirsi, bensì comunisti del e per il domani.

 

Occorre riannodare i fili del passato con le pagine ancora non scritte del futuro di miliardi di donne e uomini del pianeta.

E’ il terribile, ma entusiasmante cimento che abbiamo di fronte. E chi ha scritto questo contributo ne ha pienamente la consapevolezza e ne sente tutta la responsabilità.

 

Per questo, il libro che state leggendo ha un titolo tremendamente impegnativo (Ricostruire il partito comunista) e un sottotitolo adeguato, invece, all’esiguità ed alla modestia delle nostre attuali risorse: appunti per una discussione. La più libera, la più aperta, la più laica. Collettiva: riscoprendo il valore di una intellettualità collettiva, gramscianamente intesa. Fuori da ogni facile certezza del passato, ma al contempo consapevoli di essere propaggine di una grande e gloriosa storia: quella dell’emancipazione delle donne e degli uomini dallo sfruttamento.

 

Il mondo è profondamente mutato e noi dobbiamo adeguare le nostre idee, le nostre proposte e la stessa nostra organizzazione di comunisti alle novità gigantesche che ci consegna la modernità, dai new media, alle migrazioni bibliche che segnano e modificano le società economicamente avanzate, all’irrompere sulla scena internazionale di nuovi soggetti di trasformazione (gli Stati economicamente oggi emergenti e potenzialmente egemoni), ma anche di nuove e diverse minacce, dalle forme inedite dell’imperialismo del terzo millennio, all’irruzione del terrorismo fondamentalista – risposta opaca, tragica e controproducente alla disperazione ed alla convinzione (erronea, ma potente) della fine di una prospettiva di riscatto sociale insita nella sconfitta dell’ ’89, sino alle deflagrazioni ambientali e le contraddizioni di genere, da declinare come inscindibilmente legate, entrambe, ancorché con proprie specificità, alla lotta globale contro il dominio del capitale globale.

Dobbiamo comprendere non superficialmente cosa significa la globalizzazione dell’economia del pianeta e le sue drammatiche implicazioni nella progressiva perdita di democrazia e di diritto.

Potremo essere vincenti, in Italia ed in Europa, contro il “modello Marchionne”, solo se sapremo contrapporre ad esso soluzioni non solo più giuste (il che è ovvio, per un comunista), ma anche più efficaci nel mondo dell’economia globale.

Sapremo essere all’altezza dello scontro asperrimo di classe in corso, solo se sapremo delineare un nuovo rapporto tra Stato e mercato, pubblico e privato, proprietà pubblica e proprietà individuale o di comunità, società e individui: da comunisti, appunto, ma in misura e modalità e soluzioni differenti dal passato.

Potremo affrontare la discussione sulla complessiva ridefinizione della democrazia in Occidente, riforme istituzionali e costituzionali, leggi elettorali, rapporto nazione-territorio, solo se sapremo ristudiare il tema dello Stato e delle sue istituzioni, nell’Occidente capitalistico, spiegando cosa significa, per un comunista, centralità del Parlamento, come paradigma della democrazia sostanziale – nella sua declinazione più vera, quella dell’art. 3 della Costituzione repubblicana – nel senso del Parlamento medesimo inteso come uno dei luoghi del conflitto e non come terreno della mediazione politica.

Sapremo declinare la questione morale, oggi così determinante, come potente fattore di trasformazione sociale, solo se saremo capaci di reimpostarla come questione di classe e non solo come semplice, pur importante, applicazione della legalità dei codici borghesi.

Ma tutto ciò richiede la pazienza e la severità degli studi. L’onere e il piacere della scrittura e della lettura collettiva. Della riflessione e della discussione. Della critica e dell’autocritica.

Dobbiamo, per vincere la sfida del terzo millennio e della sua complessità, saperci mettere in discussione, con l’umiltà della nostra – solo apparente contraddizione – straordinaria presunzione intellettuale di essere nel giusto.

Ma proprio questa presunzione intellettuale implica che non possiamo permetterci alcuna pigrizia intellettuale. Nessuna certezza, nessun modello esemplare da seguire, nessuna rendita di posizione: navighiamo in terre incognite.

La nostra bussola è rappresentata, unica, non già dalle certezze del passato, ma dalle attuali contraddizioni di classe. Sarà la nostra audacia intellettuale – se saremo in grado di seguirla e di assecondarla – che ci consentirà di raggiungere, al termine di un lungo viaggio, i nostri obiettivi.

 

Vi è, in definitiva, un immenso lavoro da svolgere. E dovrà essere svolto nel corso della lotta quotidiana, della fatica dell’organizzazione (riorganizzazione, per molti versi), della paziente ritessitura di rapporti con il mondo del lavoro salariato nelle sue diverse forme odierne.

Nel mondo non siamo certo soli. Esperienze diverse e formidabili si stanno sviluppando in tutti i continenti: ne parleremo nel corso di questo libro.

 

E', tuttavia, per il nostro Paese e nella vecchia Europa, un lavoro immenso.

Cerchiamo qui di dare un contributo in tal senso, che sottoponiamo alla discussione.