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nr.3 - nuova serie - ottobre 2001

Ferdinando Dubla

LO SCHELETRO E L'ARMADIO

Rileggendo gli scritti di Mao del 1956 (“A proposito del socialismo realizzato”) e la coeva intervista a Togliatti su “Nuovi Argomenti” dopo il rapporto di Krusciov al XX Congresso del PCUS, appare ancora più anacronistico scegliere l’anti’stalinismo’ come matrice di un nuovo inizio per il movimento comunista e rivoluzionario. Non è possibile disgiungere il revisionismo storico da quello politico. Allora, come ora, non era in discussione la critica, necessaria, possibile e finanche doverosa, ma la liquidazione conseguente e semplificatoria di un’intera esperienza


Non commettiamo gli errori di Stalin, e non commetteremo neanche quelli di Chruscev.......

(Mao, 1961)

Subito dopo la morte di Stalin, avvenuta il 5 marzo 1953, si aprì nel partito e nello Stato socialista sovietico il problema della successione: cominciò così a diffondersi una sorta di culto della personalità di Malenkov. Non era Kruscev il “naturale” successore della grande personalità di origine georgiana, venerato dalla popolazione e dai militanti comunisti di tutto il mondo così come temuto dai suoi avversari e rispettato dai suoi alleati, ma proprio Georgij Malenkov, il segretario del Comitato centrale. Personalità di alto valore, ma debole di temperamento, Malenkov fu nominato presidente del Consiglio dei ministri, ma non ebbe la capacità di resistere ai complotti e agli intrighi che furono orditi tra la componente dell’apparato del partito (Kruscev) e quella dello Stato (Berija, a capo della potentissima NKVD, Commissariato del Popolo per gli affari interni). Il paradosso storico (la storia ignora gli schemi lineari ed eccessivamente accademici, come la vita) è che colui che legò il suo nome al processo di cosiddetta “destalinizzazione”, Nikita Kruscev, usò metodi come il complotto, l’intrigo, l’oscura trama del potere, beffandosi della “legalità socialista” che lui stesso avrebbe denunciato come violata ai tempi di Stalin. Di cui era stato (in vita) fervente ammiratore ed entusiasta persino nel periodo ‘critico’ delle cosiddette ‘purghe’, il 1936/38. Altro apparente paradosso storico: Berija, considerato il fedele e sanguinario braccio destro di Iosif Vissarionovic, subito dopo la sua morte, aveva iniziato un concreto processo di “destalinizzazione”, che pagò con la fucilazione il 24 dicembre dello stesso anno 1953. Beria aveva chiesto al Presidium del CC di approvare alcune limitazioni dei poteri della famigerata “sezione speciale”, il tribunale di polizia; era divenuto oltremodo critico nei confronti della politica agricola sostenuta da Kruscev, che aveva suscitato un forte scontento tra i coltivatori; già il 24 marzo di quell’anno aveva sottoposto al Presidium un documento nel quale avanzava una richiesta di amnistia per un ampio numero di prigionieri; aveva dato corso ad iniziative per ampliare i diritti nazionali dell’Ucraina occidentale, promovendovi la libertà religiosa. Ma, soprattutto, dopo la rivolta degli operai di Berlino Est del 16 giugno, Kruscev e la sua parte politica avevano influenzato Malenkov nell’attribuire a Berija tutta la colpa della crisi, denunciandolo al Plenum di luglio per aver spinto troppo oltre il processo di liberalizzazione in Germania.[1] Per cui, una fonte non sospettabile di ‘stalinismo’ come Amy Knight deve concludere:

  [Kruscev] Pur entrato a far parte del Politbjuro solo nel 1939, quando la maggior ondata di epurazioni si era ormai esaurita, trasse personalmente profitto dalla liquidazione dei suoi superiori. Inoltre, i documenti d’archivio hanno dimostrato che negli anni 1937-1938 egli aveva entusiasticamente eseguito gli ordini del potere centrale. Giunto a Mosca nel 1950, divenne uno zelante sostenitore di Stalin nel periodo buio della campagna antisemita. Se Kruscev avesse avuto il minimo scrupolo, se l’idea di far soffrire ingiustamente degli innocenti gli fosse davvero ripugnata, non avrebbe fatto promuovere Kruglov e Serov, responsabili della deportazione in Siberia e dello sterminio di interi gruppi etnici. Kruscev non aveva fatto arrestare Beria per punirlo dei crimini di cui si era macchiato all’epoca delle epurazioni, ma piuttosto perché il suo avversario aveva acquistato troppo potere ed era sul punto di imporre agli altri membri della dirigenza le sue riforme politiche.”[2]

La destalinizzazione, dunque, che si fuse poi successivamente, per il tramite del revisionismo moderno, con l’antistalinismo, nacque e si sviluppò con metodi che erano stati etichettati come “staliniani”. Destino tragico, oppure, come già all’indomani del XX Congresso del PCUS del 1956, l’ antistalinismo non poteva costituire una matrice per un nuovo luminoso inizio del movimento comunista, perché nasceva da un ripudio puro e semplice per fini diversi da quelli proclamati? Come scrissero e dichiararono personalità così diverse e destinate anche a scontrarsi successivamente, come Mao Tse Tung e Palmiro Togliatti.

 

·        La chiave politica per l’interpretazione storica è sempre stata oggetto di controversie e dibattiti accademici fra gli storici di professione; ma l’uso politico della storia è tipico della cultura dominante, che tende a “liquidare” il patrimonio storico delle classi avverse. Ciò non stupisce nessun marxista, che legge la storia secondo le diottrie della lotta di classe: dunque, anche il giudizio storico è parte della lotta delle classi. Nei suoi circa 150 anni di storia, il movimento operaio organizzato e il movimento comunista internazionale, ha accumulato esperienze, eroismi ed errori: chi si pone il compito di rifondare, all’altezza delle sfide del XXI secolo, il partito comunista per la definitiva emancipazione delle classi oppresse, può e deve ragionare sui nodi storici rilevanti, ma non può riservarsi atteggiamenti liquidazionisti o accentuatamente revisionistici, come ha già acutamente segnalato Bruno Steri dalle colonne di questa stessa rivista.[3] E’ uno spazio che volentieri le classi dirigenti amano lasciare alle anime ‘belle’, per cui ripartire da un “anno zero” per riprogettare la resurrezione sociale è un bel modo per evitare l’analisi storica profonda, che dovrebbe invece essere condotta non solo con il dovuto rigore filologico e la documentazione scientifica, ma con lo strumento che tutti coloro che si richiamano al marxismo dovrebbero utilizzare: il materialismo storico.

Il 1956 è un anno cruciale nella storia del movimento comunista internazionale del XX secolo. A ragione viene indicato come data di discrimine da diversi punti di vista. Per i revisionisti di sinistra, è lo svelamento di una mistificazione gigantesca: viene abbattuto il culto di Stalin, i suoi misfatti vengono a galla e il socialismo può liberarsi di due fardelli sanguinosi: il metodo della coercizione e della repressione totalitaria e una costruzione statuale sia da “Stato operaio degenerato” [le varie correnti del trotskismo storico] sia di “capitalismo monopolistico di Stato”. Liberatosi da questi due pesanti fardelli, il comunismo può riprendere dal punto in cui è stato teorizzato e praticato solo in chiave rivoluzionaria di movimento, prima dal leninismo, poi, revisionato anche questo, dal marxismo delle origini (con una critica a Engels e alla sua posteriore, alla morte di Marx, “dialettica della natura”). Per i revisionisti di sinistra, il come si sviluppino gli eventi che portano al XX Congresso del PCUS (la condanna a morte di Berija, considerato il braccio destro e armato di Stalin, nel luglio 1953, il ruolo giocato da Krusciov nella lotta a Berija e nell’emarginazione di Malenkov, ecc…) non sembrano oggetti di ricerca degni di considerazione. Né una valutazione, seppure a fortiori, delle politiche kruscioviane, la prima delle quali evidentissima, la consumazione di una gravissima rottura nel movimento comunista, quella tra URSS e Cina, in cui ovviamente si inserirà l’imperialismo statunitense e occidentale. La categoria di stalinismo per i revisionisti di sinistra sarà, dal 1956 in avanti, sinonimo di degenerazione burocratica, metodo dispotico di direzione, comunismo militare e dunque, negazione del comunismo, quello delle ‘anime belle e pure’, degli eroi senza macchia e senza paura.

Anche per il PCI del 1956, che si avvia dopo il rapporto detto ‘segreto’ di Krusciov, al suo VIII Congresso e alla politica della ‘via italiana’, la critica allo stalinismo inizia a costituire un discrimine tra ‘progressisti’ e ‘conservatori’, tra ‘critici’ e ‘ortodossi’: e, sebbene all’inizio in maniera cauta, anche grazie all’intervista di Togliatti a Nuovi Argomenti e alla opportunistica considerazione di un diffuso senso comune nel popolo comunista e nei sentimenti di quadri e militanti favorevoli al ‘mito’ di Stalin, successivamente viene sempre più avvicinandosi ai significati dei revisionisti di sinistra, una patente per assicurarsi l’affidabilità interna e incarichi di direzione.

E’ sintomatico come il significato di stalinismo secondo i revisionisti di sinistra e la critica allo stalinismo da essi considerata necessaria per una militanza attiva nelle fila del movimento operaio organizzato, sia quasi identico a quello dei revisionisti di destra e a tutti i reazionari dell’apologetica borghese. Fino a confondersi. La differenza, sostanziale certo, è che lo stalinismo per gli uni non implica la critica del comunismo, per gli altri naturalmente, lo confutano definitivamente. Ma il revisionismo, che è sempre storico e politico insieme, avvicina talmente le idee dominanti da lasciarsene contaminare: d’altra parte, il revisionismo del marxismo e del leninismo è figlio generato da quelle.

Anche per i marxisti-leninisti il 1956 è anno discriminante, questa volta esattamente per il significato speculare a quello dei revisionisti di destra e di sinistra. Inizia a circolare insistentemente la categoria di ‘tradimento’: un tradimento dei princìpi che porrà le basi della degenerazione prima e del dissolvimento poi del mondo del socialismo costruito dalla Rivoluzione d’ottobre in poi e in particolare degli assetti del secondo dopoguerra. Ma è una categoria fragile, impotente di fronte a interrogativi rilevanti: perché mai la costruzione del comunismo in una società socialista di ‘transizione’ quale l’URSS, si blocca con la morte del protagonista assoluto di quella transizione? Un errore che un comunista non può commettere è quello di rendersi indispensabile nello sviluppo storico delle sue idee, il ‘senza di cui’ quelle idee non sarebbero. Errori e limiti sono individuabili, eccome: pur rifiutando le interpretazioni revisioniste, di destra o di sinistra, il bilancio critico diventa sempre necessario per garantire proprio quello sviluppo storico. E’ l’ottica degli scritti di Mao e del PCC seguiti al XX Congresso del PCUS, proprio nel 1956 e che consente di superare lo ‘stalinismo’ da sinistra, senza ripudiare il suo significato per il movimento operaio e comunista internazionale. Sono questi scritti che impostano la questione-Stalin in forme tutt’altro che liquidatorie e forniscono ai comunisti di tutto il mondo – per l’organizzazione del partito e della lotta di classe -  gli strumenti per un bilancio critico dell’esperienza storica del socialismo, per la battaglia contro il revisionismo moderno e per una corretta analisi di fase. Ma prima di soffermarci su alcuni elementi dell’analisi di Mao nel 1956, bisogna chiarire meglio i significati di revisionismo (vecchio e moderno, storico e politico) e quello dell’”analisi di fase”.

 

·        La necessità di un aggiornamento adeguato alle fasi storiche della teoria e dall’impianto “paradigmatico” di tipo scientifico elaborati da Marx, Engels e Lenin, la giusta esigenza di ‘ammodernare’ l’analisi per renderla adeguata alle cosiddette condizioni oggettive, sono stati il pretesto per una revisione degli stessi princìpi da parte di chi sostanzialmente li rifiuta in quanto tali. La confusione è appunto quella tra ‘revisione’ dei princìpi e analisi di fase e/o analisi “differenziata”. L’analisi di fase e/o “differenziata”, che, correttamente intese costituiscono il concreto e creativo banco di prova dell’elaborazione marxista, debbono discendere appunto da quest’ultima. Il primo revisionismo mosse da Eduard Bernstein (1850-1932) e fu tutto in chiave antileninista, pretese la sua filiazione dal marxismo solo in quanto questo si diffondeva sempre di più nelle fila del movimento operaio. Scrisse Lenin nel 1908:

 

Il complemento naturale delle tendenze economiche e politiche del revisionismo è stato il suo atteggiamento verso l'obiettivo finale del movimento socialista. "Il fine non è nulla, il movimento è tutto", queste parole alate di Bernstein esprimono meglio di lunghe dissertazioni l'essenza del revisionismo. Determinare la propria condotta caso per caso: adattarsi agli avvenimenti del giorno, alle svolte provocate da piccoli fatti politici; dimenticare gli interessi vitali del proletariato e i tratti fondamentali di tutto il regime capitalista, di tutta l'evoluzione del capitalismo; sacrificare questi interessi vitali a un vantaggio reale o supposto del momento, tale è la politica revisionista. Dall'essenza stessa di questa politica risulta chiaramente che essa può assumere forme infinitamente varie e che ogni problema più o meno "nuovo", ogni svolta più o meno inattesa e imprevista - anche se mutano il corso essenziale degli avvenimenti in una misura infima per un brevissimo periodo di tempo - devono portare inevitabilmente all'una o all'altra varietà di revisionismo.

Ciò che rende inevitabile il revisionismo sono le sue radici di classe nella società moderna. Il revisionismo è fenomeno internazionale. (..) Non possiamo qui soffermarci ad analizzare il contenuto ideologico di questo revisionismo, che è ancora ben lontano dall'essersi così sviluppato come il revisionismo opportunista, non è diventato internazionale e non ha sostenuto praticamente nessuna battaglia importante col partito socialista in nessun paese. Ci limiteremo perciò al "revisionismo di destra" che abbiamo descritto più sopra.

Che cosa rende inevitabile il revisionismo nella società capitalista? Perchè il revisionismo è più profondo delle particolarità nazionali e dei gradi di sviluppo del capitalismo? Perchè in ogni paese capitalista esistono sempre, accanto al proletariato, larghi strati di piccola borghesia, di piccoli proprietari. Il capitalismo è nato e nasce continuamente dalla piccola produzione. Nuovi numerosi "strati medi" vengono inevitabilmente creati dal capitalismo (appendici della fabbrica, lavoro a domicilio, piccoli laboratori che sorgono in tutto il paese per sovvenire alla necessità della grande industria, come quella delle biciclette e dell'automobile, per esempio). Questi nuovi piccoli produttori sono essi pure in modo inevitabile respinti nuovamente nelle file del proletariato. E' del tutto naturale quindi che le concezioni piccolo-borghesi penetrino nuovamente nelle file dei grandi partiti operai. E' del tutto naturale che debba essere così e sarà così sempre, sino allo sviluppo della rivoluzione proletaria, perchè sarebbe un grave errore pensare che per compiere questa rivoluzione sia necessaria la proletarizzazione "completa" della maggioranza della popolazione. Ciò che noi sperimentiamo ora spesso soltanto nel campo ideologico: le discussioni contro le correzioni teoriche di Marx; ciò che ora non si manifesta nella pratica che a proposito di certi problemi particolari del movimento operaio: le divergenze tattiche coi revisionisti e le scissioni che si producono su questo terreno tutto ciò la classe operaia dovrà inevitabilmente subirlo ancora in proporzioni incomparabilmente più grandi quando la rivoluzione proletaria avrà acutizzato tutti i problemi controversi, avrà concentrato tutte le divergenze sui punti che hanno l'importanza più diretta per determinare la condotta delle masse e ci avrà imposto, nel fuoco del combattimento, di discernere i nemici dagli amici e di respingere i cattivi alleati per infliggere al nemico colpi decisivi.

La lotta ideologica del marxismo rivoluzionario contro il revisionismo alla fine del secolo XIX non è che il preludio delle grandi battaglie rivoluzionarie del proletariato, che avanza verso la completa vittoria della sua causa, nonostante tutti i tentennamenti e le debolezze degli elementi piccolo-borghesi. [4]

 

Lenin opera un’analisi di classe del revisionismo e lo comprende come fenomeno legato alla composizione sociale del proletariato e della borghesia, riesce a smascherarlo come estraneo al marxismo e distingue nettamente la necessità di un’analisi componenziale differenziata e di fase, da condurre secondo gli strumenti del marxismo rivoluzionario, materialismo storico e dialettico, da quella che discende da una ‘revisione organica’ della teoria per annullarla in una chiave che non è ideologica, nell’ambito della teoresi astratta, ma concretissima. La questione della tattica e della strategia del partito comunista, dell’organizzazione di classe, il rapporto mezzi/fini, l’identità e la politica nella platea storica, è altro, radicalmente altro dal revisionismo e appartiene invece alla riflessione piena  dell’intero movimento operaio marxista e delle sue avanguardie riconosciute di classe.

Ciò che Lenin ha rappresentato per il primo revisionismo, Mao lo ha rappresentato per il revisionismo ‘moderno’, cercando, già dal 1956, subito dopo il XX Congresso del PCUS, di indicare le forme con cui cammina e si struttura nella lotta di classe. ‘Moderno revisionismo’ dopo gli eventi del 1956, che avrà forza devastatrice quando non sarà adeguatamente contrastato proprio con le armi dell’analisi proposta da Mao. Analisi fecondissima ancora oggi, laddove si tenta un disgiungimento tra revisionismo storico e politico. La lotta al revisionismo storico infatti, quello che giunge all’ignobile negazionismo dei campi di sterminio nazisti o quello che in Italia mette su un falsopiano la lotta partigiana della Resistenza antifascista con i carnefici e gli aguzzini della dittatura mussoliniana o la retorica dei ‘ragazzi di Salò’[5], verrebbe rafforzata in maniera decisiva dalla lotta al revisionismo politico. Non può esserci la prima senza la seconda o, meglio, la lotta sui due piani è indisgiungibile. I marxisti debbono contrastare il revisionismo storico sul piano politico, oltrechè culturale, rivendicando la fertilità dei propri strumenti d’analisi. Ripercorrendo l’analisi di Mao a partire, per questo aspetto così decisivo e rilevante, dal 1956.

“In quale posizione si mette Khruscev, che partecipò alla direzione del partito e dello Stato durante il periodo staliniano, quando si batte il petto, picchia il pugno sulla tavola e grida con tutte le sue forze gli abusi di Stalin? Nella posizione del complice di un ‘assassino’ o di un ‘bandito’? O nella stessa posizione di uno ‘sciocco’ e ‘idiota’?” [6]

Già nell’aprile 1956 Mao disse a Mikoyan che “i meriti di Stalin superavano le sue colpe”, come riporterà la “Peking Review” del 13 settembre 1963 (all’epoca della piena rottura dell’asse Cina-URSS) e ad ogni modo il giudizio è coerente con l’articolo di fondo del 5 aprile 1956 Sull’esperienza storica della dittatura del proletariato, che ha in quest’affermazione il suo fulcro centrale:

“Alcuni ritengono che Stalin abbia sbagliato in tutto. Questo è un grave errore concettuale. Stalin fu un grande marxista-leninista, e nello stesso tempo un marxista-leninista che commise parecchi grossolani errori senza rendersi conto che erano errori. Noi dovremmo considerare Stalin da un punto di vista storico, fare un’analisi adeguata e completa per vedere dove aveva ragione e dove aveva torto, e trarne utili lezioni.” [7]

E Mao aveva provato sulla propria pelle i ‘grossolani’ errori di Stalin, durante il processo di sviluppo della rivoluzione cinese negli anni ’20 e negli anni ’30: aveva tutte le carte in regola, dunque, per affermare quanto cercava di argomentare razionalmente, da marxista. Era necessaria un’analisi – come scrive Schramm – “che facesse qualche tentativo per riferire gli aspetti negativi del governo di Stalin nel loro contesto storico, e non liquidandoli semplicemente come i delitti di un determinato uomo.”[8]

Lo stesso “culto della personalità”, architrave concettuale del “rapporto segreto”, era stato oggetto della “campagna di rettifica” del 1942 promossa dallo stesso Mao e riferita alla sua persona, sebbene in seguito si dovesse ulteriormente rettificare in base agli “eccessi” occorsi durante la “rivoluzione culturale” nel 1966-68. Dunque, separare l’uomo-Stalin dal sistema sovietico e non solo, dall’intero movimento comunista mondiale, appariva al PCC una palese assurdità e privo di senso storico. Non era in discussione la critica, necessaria, possibile e finanche doverosa, ma la liquidazione conseguente e semplificatoria di un’intera esperienza, sprovvista di strumenti marxisti e leninisti e quindi errata dal punto di vista comunista. Non solo errata, ma le categorie come “stalinismo” e, di converso, “destalinizzazione”, erano categorie proprie del pensiero borghese. Con corollari tutt’altro che secondari: il passaggio pacifico al socialismo per via parlamentare come principio nuovo e postulato a priori (su questo punto in particolare si sviluppò la polemica fra il PCC e il PCI di Togliatti dopo il X Congresso del partito italiano, che continuò fino agli inizi del 1963) e la “coesistenza” non-belligerante con l’imperialismo. Tali questioni vennero discusse alla riunione del 1957 a Mosca dei partiti comunisti e segnò un ulteriore stadio nelle relazioni cino-sovietiche, anche se il contesto in cui il dibattito avvenne fu condizionato dagli avvenimenti dell’ottobre e del novembre 1956 in Polonia e in Ungheria.

In Ancora sull’esperienza storica della dittatura del proletariato, pubblicato il 29 dicembre 1956,[9] quasi a consuntivo dell’anno più difficile per il comunismo del XX secolo, si fa ancora più marcata la sottolineatura della necessità di una battaglia contro dogmatismo e revisionismo, due lati di una stessa medaglia, nell’ambìto di una lotta più generale contro l’imperialismo. La contraddizione fondamentale è tra l’imperialismo e il campo socialista, da non confondersi con le contraddizioni secondarie “in seno al popolo” che non assumono carattere antagonista, almeno fino a quando una delle parti in lotta non passa al campo avverso: in Polonia ed in Ungheria è accaduto che contraddizioni secondarie divenissero fondamentali per opera dell’infiltrazione imperialista e ciò accade quando il revisionismo non viene combattuto apertamente con la critica esplicita; la stessa storia del PCC può assurgere ad esempio di questa lotta (la lotta tra le due linee è la lotta di classe interna al partito inscrivibile nelle contraddizioni secondarie fino al limite del suo passaggio alla contraddizione antagonistica) ed era iniziata negli anni Venti con la battaglia di Mao avversa alla linea Li-Li-San [10].

Nella valutazione degli errori e limiti, nonché di alcuni inevitabili insuccessi nella costruzione del primo stato socialista, non bisogna invertire il principale con il secondario: quei limiti, che sono evidentemente anche i limiti e gli errori dello stalinismo, sono aspetti che non riguardano la sostanza fondamentale dell’intrapresa sovietica, la prima vera e compiuta dimensione statuale del socialismo, in  un paese che in breve tempo riesce a raggiungere traguardi inimmaginabili e costituisce un possente baluardo contro l’imperialismo. Ma non si pensi ad un’analisi edulcorata o reticente: nient’affatto. Mao, come già Togliatti, cerca di utilizzare strumenti marxisti nell’analisi storico-politica, evitando il dogmatismo autocelebrativo e nello stesso tempo il revisionismo liquidatorio:

 

“Come spiegare i gravi errori commessi da Stalin? Che rapporto vi è tra questi errori e il sistema socialista dell’Unione Sovietica? La scienza della dialettica marxista-leninista ci insegna che ogni forma di rapporti di produzione e ogni sovrastruttura basata su questi rapporti di produzione nasce, si sviluppa e sparisce. (..) Il fatto che l’Unione Sovietica abbia conseguito un rapido progresso economico dimostra che il suo sistema economico è in complesso, adatto allo sviluppo delle sue forze produttive e che il suo sistema politico è anch’esso, in complesso, adatto ai bisogni della sua base economica. Gli errori di Stalin non ebbero origine dal sistema socialista: ne consegue che, per correggere quegli errori, non è necessario ‘correggere’ il sistema socialista. La borghesia occidentale tenta di utilizzare gli errori di Stalin come prova degli ‘errori’ del sistema socialista. Ciò è privo di fondamento. C’è anche chi cerca di spiegare gli errori di Stalin con il fatto che nei paesi socialisti lo Stato amministra l’economia e chi ritiene che se il governo dirige l’attività economica, esso diviene inevitabilmente un ‘apparato burocratico’ che ostacola lo sviluppo delle forze del socialismo. Questa argomentazione non è più convincente dell’altra. Nessuno può infatti negare che lo straordinario sviluppo economico dell’URSS deriva precisamente dal fatto che lo Stato operaio assicura la direzione pianificata dell’attività economica, mentre i principali errori di Stalin hanno ben scarso rapporto con i difetti di funzionamento dell’apparato dello Stato nella direzione degli affari economici.”[11]

 

E sono proprio i dati economici della “struttura” della società sovietica, certo grazie a una ‘rivoluzione dall’alto’ e a una mobilitazione permanente e irripetibile per la collettivizzazione e la rottura con l’”arretratezza”, a costituire non certo un modello, ma certamente il dato storico incontrovertibile da cui partire per l’analisi:

 

“La grande svolta promossa da Stalin coinvolge profondamente l’intero paese: l’agricoltura, con la collettivizzazione ‘dall’alto’, accelerata e fortemente sostenuta con la coercizione (tuttavia, è bene ricordare, non solo di questo si è trattato, ma anche, sebbene non in tutte le zone, di un movimento di massa di contadini poveri contro i kulaki); l’industria, con la creazione, a ritmi frenetici, di immensi complessi per la produzione di mezzi di produzione; la scuola: nella popolazione tra i 9 e i 49 anni di età la percentuale di analfabeti scende dal 43% del 1926 al 13% del 1939; la percentuale di studenti universitari provenienti da famiglie operaie sale dal 30% nel 1928-29 a quasi il doppio nel 1932-33. 17 milioni di contadini tra il 1928 e il 1935 passano dalle campagne nelle città o nei nuovi poli industriali. La disoccupazione operaia è riassorbita nei primi due anni del primo piano quinquennale (cfr. A.Agosti, Stalin, Ed.Riuniti, 1983, pp.71-72). In pochissimi anni l’intera società di un enorme paese subisce una trasformazione radicale come mai era avvenuto nella sua storia. La Russia è un immenso cantiere in continuo movimento, dove sono all’opera, animati da passione ed entusiasmo, milioni di ‘costruttori’ del nuovo mondo, di lavoratori che hanno la possibilità, un tempo impensabile, di una grande mobilità sociale verso l’alto. Il consenso di massa che questa politica ottiene non è fittizio, né coatto, poggia su una base sociale reale.”[12]

 

Per Togliatti, che risponde nel maggio alle 9 domande sullo stalinismo, la rottura della legalità socialista si ha proprio perché i successi nella struttura economica, avvenuta grazie ad una mobilitazione delle masse, fa presupporre che la mobilitazione possa  essere permanente sospendendo la costruzione della democrazia sovietica: piuttosto che il fumoso “culto della personalità”, il segretario del PCI chiama alla correità l’intero gruppo dirigente del PCUS e principalmente su un punto: la mobilitazione produttiva doveva accompagnarsi ad un’altrettanto forte mobilitazione di controllo e di indirizzo, capace di sviluppare i contenuti della democrazia socialista e la sua possibile autocorreggibilità interna, piuttosto che accusare solo ed esclusivamente il sabotaggio esterno:

 “I successi ottenuti furono qualcosa di molto grande, di grandioso, anzi. Fu creata una grande industria socialista, e fu creata senza aiuti o crediti dall’estero, attraverso un impegno e uno sviluppo delle forze interne della nuova società. Fu trasformata, anche se in modo meno sicuro, attraverso notevoli difficoltà, fretta eccessiva ed errori, la struttura sociale delle campagne. I risultati ottenuti erano qualcosa che mai al mondo era stata veduta, che fuori dell’Unione Sovietica pochi avevano creduto possibile. (..)[13]

 

Ma i successi portarono all’errata considerazione che tutti i problemi fossero risolti, che tutte le oggettive contraddizioni fossero appianate: ma proprio le contraddizioni, com’era anche nella concezione di Mao, pur secondarie, se non risolte con l’opera creatrice delle masse, inevitabilmente erano destinate a diventare principali:

 “Queste contraddizioni oggettive, queste difficoltà, questi contrasti sono spesso, nel corso della costruzione di una società socialista, molto gravi, e non possono venire superati se non vengono riconosciuti in modo aperto, chiamando le stesse masse operaie e lavoratrici ad affrontarli e risolverli con il loro lavoro, con la loro opera creativa.[14] La prima conseguenza fu che “il vero dibattito creativo a poco a poco venne scomparendo, e quindi la stessa attività delle masse a ridursi, movendosi più per direttiva dall’alto che per stimolo proprio. Ma la seconda conseguenza fu più grave ancora ed è che quando la realtà riprendeva i suoi diritti, e le difficoltà venivano fuori, come conseguenza degli squilibri e dei contrasti che tuttora erano nelle cose, si manifestò e a poco a poco finì per prevalere su tutto la tendenza a considerare che sempre e in ogni caso il male, l’arresto nell’applicazione del piano, la difficoltà negli approvvigionamenti, nell’afflusso delle materie prime, nello sviluppo delle diverse parti dell’industria o dell’agricoltura, ecc.., ecc.., fossero dovuti al sabotaggio, all’opera del nemico di classe, di gruppi controrivoluzionari operanti clandestinamente e così via.” [15]

 La lettura di Togliatti non è dunque affatto ‘liquidazionista’, ma cerca di scavare più in profondità rispetto alla nuova esegesi revisionistica proposta da Krusciov, accusata di essere fuori del criterio di giudizio che è proprio del marxismo e indiziata di forte opportunismo. Non solo, ma nella stessa intervista il leader del PCI tiene ferma la barra della critica irriducibile alla falsa democrazia capitalista, la cui fonte del potere non è la volontà popolare, ma la ricchezza indebita proveniente dalla proprietà privata dei mezzi della produzione e di scambio: utilizza, cioè, gli strumenti della lettura di classe, del marxismo, per rivendicare la fecondità del punto di rottura rivoluzionario dell’Ottobre del ’17 e la sua continuità nella costruzione dello Stato socialista sovietico.

Insomma, sia Togliatti che Mao avvertono che il processo di destalinizzazione avviato non è risultato di un’esigenza di una rilettura pur critica dell’esperienza socialista dell’epoca di Stalin, ma di dinamiche di potere che pur salgono paradossalmente sul banco degli imputati. Ed entrambi danno una preziosissima lezione di storia politica e di filosofia marxista. L’idea di fondo è che il bilancio critico dell’esperienza storica, necessario e fecondo esercizio di autocritica per l’analisi di fase e la progettazione strategica di un partito comunista, deve essere scevro da strumentalismi ed utilizzare le possenti armi dialettiche ed ermeneutiche della propria stessa tradizione. Oggi come ieri.

Ferdinando Dubla

scritto per L'Ernesto, rivista comunista, ottobre 2001


[1] Tutto questo è documentato non solo dalla ricostruzione di parte sovietica, cfr. Nekrasov,  Lavrentij Berija, in “Sovetskaja milicija”, 3,1990, pp.41-42, ma anche dai documenti coevi al periodo dello stesso Dipartimento di stato Usa, cfr. US Department of State, Foreign Service Despatch nr.63, 3 August 1953, p.2.

[2] Cfr. A.Knight, Beria, 1993- Mondadori, ed.1999, pp.274-75.

[3] “sarebbe in ogni caso sbagliato liquidare sommariamente l’esperienza delle ‘società di transizione’ come un cumulo di macerie irrimediabilmente consegnate al passato, senza minimamente guardare ad esse come ad un laboratorio in cui sono stati concretamente affrontati problemi che hanno ancora a che fare con il futuro”, cfr.Bruno Steri, A proposito del ‘socialismo realizzato’, in L’Ernesto nr.2-marzo/aprile 2001, pag.99. Non solo l’esperienza delle società di transizione, ma anche quella dei partiti comunisti, come il PCI, ad esempio. E non solo per il futuro, ma anche per il presente.

[4] Scritto nell'aprile del 1908 e pubblicato nella raccolta Karl Marx (1818 - 1883),Pietroburgo,1908. Estratto da Lenin, Opere Scelte - Editori Riuniti 1965, pag. 443-451

 

[5] [in ambito storiografico il termine indica dunque l’atteggiamento di chi sostiene la necessità di correggere opinioni o tesi storiografiche ritenute correnti o dominanti, sulla base o di nuove acquisizioni documentarie o, semplicemente, di un diverso orientamento politico e/o culturale. In tempi recenti va ricordato il revisionismo propugnato in sede storiografica da studiosi (E. Nolte, R. De Felice, ecc.) fautori di una “revisione” delle interpretazioni tradizionali del nazismo e del fascismo. Revisionisti estremi hanno contestato l’esistenza stessa dell’“Olocausto” (negazionismo)]

[6] Articolo di fondo Sulla questione di Stalin, “Peking Review”, nr.38, 20 settembre 1963, pag.11

[7] Mao Tse Tung, A proposito dell’esperienza storica della dittatura del proletariato, 5 aprile 1956, sta in Opere, ed. Rapporti Sociali, 1993, pp.133-34

[8] cfr. Stuart Schramm: Mao-Tse Tung e la Cina moderna, Mondadori, 1968, pag.369.

[9] Mao Tse Tung, Ancora a proposito dell’esperienza storica della dittatura del proletariato, 29 dicembre 1956, sta in Opere, cit., pp.247-270

[10] Una delle concezioni che discendevano dalla linea ‘ultrasinistra’ denominata ‘Li-Li-San’, era quella che la tattica dei comunisti per la rivoluzione in Cina fosse organizzare rivolte nelle città e poi estendere il movimento nelle campagne. Mao combattè questa deviazione anzitutto con la pratica concreta dell’organizzazione della lotta armata nella regione di confine Hunan-Kiangsi; è in questo periodo, mentre l’avventurismo della linea opportunista portava alle nuove, sanguinose perdite della “Comune di Canton” (fine del 1927), che Mao getta le prime basi della strategia e della tattica della rivoluzione cinese.

 

[11] Cfr. Mao, op.cit., pp.254/255

[12] Cfr. A.Catone, La transizione bloccata- Il ‘modo di produzione sovietico’ e la dissoluzione dell’URSS, Laboratorio Politico, 1998, pag.172. L’autore propone dunque la categoria di arretratezza e della rottura del suo blocco, per comprendere un fenomeno comunque irripetibile nelle straordinarie trasformazioni cui dà luogo: “Il ‘mito’ di Stalin e dell’URSS si fondava su dati di fatto oggettivi. La rivoluzione d’Ottobre e il ‘modello di Stalin’, che prende forma e si afferma tra la fine degli anni Venti e gli anni Trenta, hanno rappresentato agli occhi di centinaia di milioni di individui oppressi e diseredati la possibilità di uscire dall’arretratezza attraverso una via non capitalista di sviluppo, nel momento in cui l’imperialismo generava, nel movimento contraddittorio del capitale, sottosviluppo in vaste aree del globo. E proprio dalla questione dell’arretratezza si dovrebbe partire nel delineare un profilo dell’uomo che ha guidato, nel bene e nel male, una delle più grandiose trasformazioni sociali della storia”, ivi, pp.168-69.

[13] Cfr. Palmiro Togliatti, Opere, vol.6-1956/64, Editori Riuniti, ed.1984, pag.138. E’ il testo integrale dell’intervista concessa alla rivista Nuovi Argomenti diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci. Nel numero 20 del maggio-giugno 1956 la rivista aveva rivolto “9 domande sullo stalinismo” a uomini politici e di cultura di diversa parte politica.

[14] Ibidem

[15] Ivi, pag.139


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