lavoro politico
 
sito web di materiali marxisti per la linea rossa
 
webmaster: Ferdinando Dubla
nr.3 - nuova serie - ottobre 2001

 Maria R. Calderoni

ASSASSINIO ALL'ONU

CRONACA DELLA MORTE DELL'ULTIMO PRESIDENTE COMUNISTA AFGHANO


Scrive - in data mercoledi 3 ottobre scorso -  l'inviato in Afghanistan del Sole -24 Ore Alberto Negri: «A Kandahar c'è stata tre giorni fa una riunione della Shura, il gran consiglio, durante la quale un ministro della provincia di Tahar ha chiesto al mullah Hassan se fosse vero che stava prendendo soldi per tradirci. Lui ha risposto con una risata: "Non ho nessuna intenzione di diventare un secondo Najibullah". A parlare, nel l'intervista, è il  ministro degli interni del governo talebano in persona, Abdul Razzaq Akhound. 
Ma chi èNajibullah? 
Il suo nome intero è Mohammed Najibullah, fu l'ultimo presidente dell'era comunista, capo del governo afghano dal 1986 al '92. A quella data, la guerriglia ha già vinto, lui è già un ex;  presidente è il capo dei mujiaddin vittoriosi, Buranuddin Rabbani (nel cui gabinetto sono anche Ahmad Massud e Gulbuddin Hekrnatyar); a quella data, la ribellione dei talebani - la punta più avanzata dell'ortodossia coranica - è già in pieno svolgimento con sconvolgente successo (le forze di Rabbani-Massud via via sconfitte dagli "studenti integralisti" che avanzano in tutto il Paese). 

Prigioniero a Kabul 

Aprile 1992, Najibullah, l'uomo di  Mosca, è ormai completamente solo, fallito ogni tentativo di accordo con la  resistenza trionfante. Sua moglie e i  suoi figli sono riusciti a riparare all'estero, hanno trovato un rifugio segreto in India. Anche lui, per la verità, ha tentato di andarsene, ma all'aeroporto è  fermato da unità dell'esercito - ; lo riportano indietro e  l'Onu, ospite imbarazzante, al quale Rabbani concede salva la vita, in attesa di decidere sulla sua sorte.

Da quella data, sono passati quattro anni; i talebani, ormai padroni di quasi tutto il territorio, dopo un'ultima cruenta battaglia, conquistano anche Kabul. Anche per Rabbani e gli uomini del suo governo è già venuto il momento della resa dei conti; da qualche giorno hanno infatti abbandonato la città, fuggiti verso le montagne del Nord ad organizzare la nuova resistenza. A Kabul è rimasto lui, Aman Najibullah, solitario, infelice “prigioniero”. Orrore in flashback E’ il 26 settembre 1996.Un gruppo di cinque ”studenti” assalta la sede dell’Onu e piomba sull’ ex presidente. Lui, insieme al fratello e a due assistenti - la sua guardia del corpo generale Jafsar e il suo aiutante Tokhi - è al telefono, sta chiedendo aiuto, sta dicendo che tutte le sue guardie sono scomparse. La bandiera blu non lo salva: il commando lo arresta insieme ai suoi compagni. "Non sono note le circostanze della sua cattura da parte dei talebani e della sua esecuzione sommaria a un crocevia di Kabul", scrive la Repubblica, il giorno dopo. Più precisa l'Unità che, sotto il titolo "Najibullah lapidato a Kabul", racconta: "I taleban conquistano Kabul e mostrano subito al mondo il loro volto: rapiscono Najibullah, capo di Stato all'epoca del regime comunista, lo trascinano in piazza Ariana e lo impiccano a un palo della luce, infischiandosene dell'immunità garantitagli dalle Nazioni Unite. La stessa sorte di Najibullah è riservata al fratello. I cadaveri, insanguinati per le violenze subite prima e dopo l'esecuzione, sono rimasti appesi per tutta la giornata davanti al palazzo presidenziale... In bocca al fratello di  Najibullah, in segno di dileggio, qual cuno ha infilato un fascio di bancono te». E così il Corriere della Sera: "I Talebani lo hanno catturato, linciato e impiccato... E' stato legato a una jeep e trascinato fino al luogo del supplizio... Il suo corpo coperto di sangue, quasi irriconoscibile". Più macabramente dettagliato il racconto dell'inviato del Sole-240re, nel servizio citato: «Catturarono Najibullah e suo fratello e li trascinarono al palazzo presidenziale. Qui vennero picchiati, poi l'ex presidente venne evirato e ucciso. Il corpo, ancora grondante di sangue, fu appeso all'incrocio con il Palazzo».

Il ruolo degli Usa

I "senza Dio", il "comunista" Najibullah «era un traditore dell'islam e noi lo abbiamo punito», dichiara senza battere ciglio il mullah Mohammed Rabbani (è solo omonimo dell'ex presidente fuggito al Nord) che è a capo degli "studenti".

Orrore ed esecrazione in tutto il mondo, l'Onu rompe i rapporti con Kabul e mentre «India, Urss, Iran si mostrano fortemente preoccupati per l'insediarnento del nuovo governo, può sembrare paradossale, ma la vittoria in Afghanistan dei taleban - scrive la Repubblica in una corrispondenza datata domenica 29 settembre 1996 - sembra quasi benvenuta a Washington».

«ll destino ora è nelle nostre mani», così dice Najibullah in un discorso tenuto nel 1989, all'indomani del ritiro delle truppe sovietiche (l'Urss aveva invaso l'Afghanistan nel 1979). Ma è un destino già deciso e forse anche lui lo sa. "Najibullah era un relitto della Guerra Fredda - commenta in quei giorni il Corriere della Sera - un relitto della storia dimenticato da quattro anni". Fortemente indebolito dal crollo dell'Urss, isolato, sopraffatto dalla guerriglia vittoriosa, «accusato di aver fatto uccidere centinaia di mujiaddin, è stato anche il politico - continua il giornale - che costruì le condizioni per la fuoruscita dell'Armata Rossa dal paese».

A quel tempo, Aman Najibullah parlava infatti di pace, di riconciliazione, di un popolo stanco di una guerra civile durata dieci anni. «Nel suo palazzo di Darul, se da una parte mirava a frantumare la resistenza, puntando proprio sui dissidi al suo interno - scrive Vladimiro Odinzov sulla Repubblica- allo stesso tempo promulgava amnistie e ricompense a chiunque si fosse arreso con le proprie armi. "Dobbiamo rivolgerci con pietà, gentilezza e con spirito di riconciliazione a coloro che inconsciamente si sono uniti alla controrivoluzione", ripeteva sempre più spesso, offrendo alla guerriglia - ora non più "banda di assassini lontana da Allah" - un governo nazionale, un cessate il fuoco unilaterale".     

Nessuna di queste iniziative ebbe successo.

Quando fu assassinato aveva solo 49 anni. Figlio di un alto funzionario della diplomazia afghana, appartenente, come tutti i maggiori leader, alla etnia dominante dei Pashtun, inizia la sua carriera politica con la partecipazione, nel '65, al movimento studentesco Soyem Aqrab, vicino al Partito comunista (guidato allora da Taraki e Karmal). Subito dopo il '78 viene nomi nato ambasciatore in Iran, al rientro in patria è cooptato nel Politburo afghano, poi è a capo dei servizi segreti; infine, dopo la defenestrazione di Karmal, insediato al potere dai sovietici, balza alla guida del Paese.

E' il 1986, il destino segnato.

Alto, massiccio, «colpivano in lui quella voce dolcissima e flessibile, smorzata anche nell'ira, e quelle sue mani affusolate, curate... Le mani di un medico, del cardiochirurgo che questo presidente dell'Afghanistan avrebbe voluto diventare da giovane studente».

 Maria R. Calderoni

da Liberazione del 6 ottobre 2001

 


vai all' index di Lavoro Politico nr.3      vai all'home Linea Rossa      scrivi alla redazione       webmaster