Alberto Burgio
SULLE TESI L'OMBRA DI TONI NEGRI
Intervento sulla Tribuna congressuale del PRC
L’argomento
esposto nella tesi 14 è a dir poco ambiguo: il titolo parla di «superamento
della nozione classica di imperialismo» ma il corpo della tesi propugna
l’archiviazione del concetto, non il suo aggiornamento. I suoi sostenitori
motivano tale posizione affermando che «oggi le condizioni sono radicalmente
mutate» rispetto alla «prima parte del secolo scorso». E’ un ragionamento
bizzarro: la realtà è sempre in movimento; i processi analizzati attraverso
l’idea di imperialismo sono molteplici; la discussione nella quale sono via
via intervenuti Kautsky, Lenin, Luxemburg, Hilferding e, nel secondo dopoguerra,
Leontev, Dobb, Sweezy e Kemp registra un ampio spettro di posizioni. D’altra
parte, è sorprendente che la rinuncia alla categoria di imperialismo venga
auspicata proprio nel momento in cui – a giudizio di sempre più numerosi
analisti – il mix tra organizzazione regionalistica dell’economia mondiale e
competizione internazionale per l’egemonia economica e politica rende «necessario
riprendere la categoria di imperialismo per ritagliare, all’interno del mondo
uniformato propostoci dagli apologeti della globalizzazione, la presenza
differenziata di forze propulsive, dinamiche spesso portatrici di instabilità
economica e politica» (Tiberi).
La coincidenza autorizza il sospetto che la cancellazione dell’idea di
imperialismo sia per gli estensori delle tesi un valore in sé, non il risultato
di un’analisi spregiudicata. Da una parte, difatti, essa consente di relegare
Lenin nella galleria degli antenati. Dall’altra, permette di inscrivere le
tesi congressuali entro uno schema teorico fondato, per l’appunto,
sull’assunto dell’esaurimento dei conflitti interimperialistici conseguente,
a sua volta, al presunto superamento della dimensione statuale del comando
politico. Come diversi osservatori vengono da più parti sottolineando, «l’intero
armamentario concettuale delle tesi» (Cavallaro) appare infatti fedelmente
mutuato dalle posizioni di Toni Negri, posizioni molto discutibili proprio per
tali loro assunti fondamentali, se è vero che la guerra in Afghanistan, il
conflitto israelo-palestinese e quello tra India e Pakistan, lo stesso scontro
politico in atto nell’Unione Europea – per limitarsi a pochi esempi –
dimostrano la durevole vitalità degli Stati come protagonisti della scena
politica mondiale.
Le tesi congressuali ricalcano le posizioni di Negri anche sui temi del lavoro e
del «nuovo capitalismo». Di qui l’accento sul cosiddetto «lavoro
immateriale» e l’idea della «diretta sussunzione» della vita al capitale
(tesi 5). Ne conseguono due seri limiti: una scarsa attenzione al conflitto tra
capitale e lavoro dipendente (nelle sue forme tradizionali e atipiche) e quindi
al tema della ricomposizione delle aree sociali sottoposte allo sfruttamento;
una grave incertezza nella individuazione dei referenti sociali
dell’intervento politico del partito in vista della elaborazione di
soggettività di classe.
Derivano da qui conseguenze negative anche sulla parte più solida del documento
congressuale, quella dedicata al «movimento dei movimenti». L’ispirazione
spontaneistica tipica dell’approccio operaista induce una tendenziale
sottovalutazione di questioni cruciali: il rapporto tra il partito e le
organizzazioni sindacali; il rapporto con le realtà sociali prive di
rappresentanza per effetto della crisi di credibilità della sinistra moderata;
il rapporto con i soggetti politici alternativi alle destre, senza i quali
nessuna ipotesi di rovesciamento degli attuali equilibri politici nel paese
potrebbe acquisire concretezza; il rapporto con gli stessi movimenti, che –
“indeboliti dall’offensiva reazionaria dei governi seguita all’11
settembre”(Zolo) – necessitano della relazione con soggetti saldamente
strutturati e in particolare con un forte partito comunista, capace di
costituire un serio interlocutore politico e un efficace sostegno organizzativo.
Quanto sia indispensabile un grande partito comunista come centro di direzione
politica è del resto evidente nell’attuale situazione del paese,
caratterizzata dalla passività delle masse al cospetto di un governo impegnato
in una sistematica opera di demolizione delle garanzie democratiche
fondamentali. Anche in considerazione di ciò appare tutt’altro che casuale
che, nel quadro della storia del movimento operaio, sia tipico delle componenti
più moderate (a cominciare dalla socialdemocrazia classica) un atteggiamento
tiepido, quando non ostile, nei confronti della forma-partito come struttura
organizzata e come luogo di elaborazione della strategia politica, cioè nei
confronti della concezione classica del movimento comunista.
Quest’ultimo accenno alla nostra storia permette di richiamare le lacune che
le tesi congressuali presentano anche su questo terreno. Vi sono omissioni, come
riguardo a Lenin (pochi accenni valgono una rimozione) e alla storia del Pci,
evocata solo per svalutare la figura di Togliatti (e non è superfluo rilevare
che si tratta di scelte coerenti con le decisioni assunte sul Prologo dello
Statuto). E vi sono errori, primo fra tutti quello di ridurre la storia a pochi
punti alti (il 1917, il 1968) e a poche figure sublimi (il solo Marx, poiché
Gramsci è ridotto a una caricatura) rendendola, con ciò, incomprensibile e
inquietante: in qualche modo somigliante a quella periodicamente aggiornata dal
Ministero della Verità di orwelliana memoria.
Alberto
Burgio,
Comitato
politico nazionale, 16 gennaio 2002
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