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nr.6 - nuova serie - novembre 2002

Aginform intervista Ferdinando Dubla

 CONVERSANDO SU TOGLIATTI

  Il bilancio critico dell’esperienza di Togliatti porterebbe a cimentarsi con una costruzione di partito comunista nel cuore delle contraddizioni capitalistiche dell’occidente.

Evitiamo un Togliatti di comodo, nel bene e nel male e assumiamoci le responsabilità che ci competono.  

 

 

Aginform ha posto alcune domande a Ferdinando Dubla, direttore di Lavoro Politico, nonchè storico del movimento operaio e studioso dell’Archivio Secchia, che ha prodotto una serie di pubblicazioni sulla storia del PCI (ultimi in ordine di tempo, “Da Gramsci a Secchia – Il primato dell’organizzazione nella ricostruzione del PCI del dopoguerra (1945/1951), Cesdom,2000 e “La Resistenza accusa ancora - Pietro Secchia e l’antifascismo comunista come liberazione popolare e lotta di classe (1943/45), Nuova Editrice Oriente, 2002), con l’intento di fare il punto sulla categoria controversa di ‘togliattismo’ e, più in generale, con il fine di sviluppare quel necessario bilancio critico della storia dei comunisti italiani così indispensabile  per ridare slancio e vigore al progetto comunista in Italia.

 

-         Si è manifestata e come, a partire dalla Resistenza e dal periodo bellico, una dialettica interna al PCI e fino a tutto l’VIII Congresso (quindi nel periodo 1943/1956), tale da poter dire che il “togliattismo” non era l’unica strada possibile per i comunisti italiani che uscivano dalla clandestinità?

 

Una dialettica di posizioni politiche, e anche molto vivace, c’è sempre stata nel PCI, dalla sua fondazione: è inutile qui ricordare la sconfitta della linea di Bordiga ufficializzata al Congresso di Lione del 1926 e il prevalere dell’analisi gramsciana e della linea politica da lui ispirata in quegli anni. Anche quando le condizioni esterne non lo permettevano e la disciplina interna si voleva ferrea (con una ovvia corrispondenza lineare fra entrambi i fattori), la discussione era molto serrata e lo scontro tra personalità politiche e le loro diverse opzioni abbastanza aperto. La storiografia del PCI e sul PCI (Spriano, Ragionieri, Ajello, Agosti, Martinelli, ma anche molta memorialistica ecc.) si è soffermata abbastanza sui casi più eclatanti, come quello di Bordiga, appunto o di Terracini o di Giolitti e alcuni intellettuali dopo l’intervento sovietico in Ungheria nel 1956 (e la posizione critica di Di Vittorio, ad es.) e per i periodi successivi allo scontro Amendola-Ingrao (XI Congresso) e la radiazione del gruppo de “Il Manifesto”- 1969; ma troppo poco su dialettiche meno esplicite ma non per questo meno importanti, anzi: quella tra Scoccimarro e Togliatti nel 1943/44 e quella tra Secchia e Togliatti negli anni che vanno dal 1945 al 1954 (per non parlare che nessuno o quasi si è occupato a dovere di figure emblematiche come Teresa Noce ed Emilio Sereni). Non si può chiarire ciò che viene chiamato “togliattismo” senza che si spieghi la sua vittoria tattica su queste altre posizioni. Scoccimarro fu piegato subito: non accettando in prima istanza l’abbandono della pregiudiziale antimonarchica, si negò l’appoggio degli altri esponenti della direzione romana del PCI, come Amendola, favorevoli alle più ampie intese. E d’altra parte, Longo e Secchia, responsabili della direzione del PCI a Milano e impegnati in prima linea  nell’organizzazione della lotta antifascista, avevano in profonda uggia l’ideologismo rigido di Scoccimarro, non lo credevano personalità capace di dirigere un partito comunista con quella necessaria flessibilità tattica che la fase imponeva. Una flessibilità tattica, però, che non doveva e poteva confliggere con i  principi del marxismo e del leninismo, con la prospettiva strategica del socialismo. Si può dire, schematizzando e semplificando oltremodo, che Togliatti per far approvare la sua linea politica scava nel cuneo di quella contraddizione. E ottiene l’approvazione della direzione milanese, indispensabile per guidare il partito nel suo complesso e riprenderne saldamente la guida dopo i circa vent’anni di permanenza a Mosca. Ma la contraddizione riappare subito dopo la guerra. Togliatti coniuga magistralmente due elementi che non necessariamente potevano coniugarsi: la concezione della “democrazia progressiva” e quella del “partito nuovo”. In cosa consistevano, e come li legge Secchia nella sua analisi e nel suo concreto operare? Nella visione di Togliatti, non vi era solo l’accettazione del terreno della democrazia parlamentare come spazio di contesa tra forze sociali contrapposte, ma la sfera istituzionale come prioritaria e preminente per la mutazione dei rapporti di forza. E conseguentemente il partito doveva organizzarsi intorno alla centralità politica della dialettica sociale, cessando (gradualmente) la funzione d’avanguardia leninista. Per Secchia, e lo si evince già dal memorandum che scrive per i sovietici e Stalin alla fine del ’47, la nuova democrazia parlamentare – frutto anche del ruolo progressivo avuto dalle forze popolari - era un terreno avanzato ma assolutamente insufficiente per spostare i rapporti di forza tra le classi, dovendosi preferire la centralità della lotta sociale che non poteva non avere benefiche ripercussioni nella sfera del politico. Il partito, dunque, nella sua concezione, doveva conservare la sua funzione d’avanguardia, ma questa doveva essere riconosciuta dalle masse con una linea di massa e un radicamento capillare di massa; l’organizzazione non poteva essere la ferrea compartimentazione tipica del periodo clandestino, ma la ramificazione nella società di quelle che Gramsci aveva chiamato “trincee” e “casematte”. In questo senso, la ricezione della lezione gramsciana si ha maggiormente nell’operato e nella riflessione di Secchia che non in Togliatti, sebbene sia stato quest’ultimo, che conosceva gli scritti di Gramsci molto di più di tutti gli altri dirigenti comunisti, a fregiarsi del titolo di “continuatore di Gramsci”. Una dialettica, comunque, che ha un punto di vero e proprio scontro a cavallo tra il ’50 e il ’51, quando Secchia (e Longo) fanno approvare dalla direzione del PCI l’accettazione della richiesta sovietica di un nuovo ruolo per Togliatti come responsabile del Cominform; il che avrebbe significato un nuovo segretario del PCI in quegli anni. Togliatti rifiutò subdolamente l’incarico offertogli direttamente da Stalin ed estromise definitivamente Secchia pochi anni dopo, nel 1954, dopo avergli messo contro anche Longo e Scoccimarro. Fu preparato, insomma, il terreno organizzativo del 1956 e l’inaugurazione della ‹‹via italiana al socialismo››.

 

-         Può essere fornita, in base all’analisi storico-politica, una valutazione obiettiva sulla linea di Togliatti in rapporto al ruolo dei partiti occidentali sia nella fase antifascista che nel dopoguerra? 

 

Non una valutazione obiettiva può essere fornita, ma un’analisi sulla verifica storico-concreta. Deve ritenersi responsabile, da questo punto di vista, Togliatti o il “togliattismo” della degenerazione successiva del PCI, del fatto, concretissimo, che oggi in Italia non vi sia un partito comunista che possa dirsi erede effettivo del PCI, ad es.? Io credo che non bisogna addossare a un singolo personaggio storico, per quanto importante,  l’intera responsabilità di una degenerazione successiva. Questo è valido sempre ed è valido anche per Togliatti. Certo è che gli epigoni togliattiani hanno interpretato le linee politiche e l’analisi di Togliatti in senso progressivamente opportunista, leggendo le fasi politiche contingenti secondo diottrie accentuatamente revisioniste di cui portano però per intero la responsabilità. Togliatti nel 1964 non lascia affatto delle macerie: egli aveva comunque sviluppato una riflessione ampia e non di corto respiro sul ruolo dei partiti comunisti nel cuore dell’occidente capitalistico. Nella fase antifascista egli questo ruolo non lo concepisce distaccato dalle sorti complessive dell’intero movimento operaio internazionale. Anche se, nelle lezioni sul fascismo tenute alla scuola di Mosca nel 1935, avvia una metodologia di ricerca che possiamo denotare come analisi differenziata. E’ convinto, cioè, che bisogna ricercare le specificità nazionali e studiare le peculiarità storiche di un paese (nel suo caso l’Italia e il regime fascista come ‹‹regime reazionario di massa››) per sviluppare adeguatamente tattiche politiche e delineare obiettivi e strategie efficaci per la rivoluzione socialista. Ma il punto è proprio questo: se nel ’35 il problema è ancora la “transizione al socialismo”, dal ‘43/’44 diventa la transizione ad una “democrazia più avanzata” (con i caratteri di cui s’è già detto) e dal ’56, sotto la copertura di una via italiana, il problema cruciale per i comunisti, la transizione e la presa del potere della classe operaia e dei ceti subalterni, viene circoscritto nel limbo di un’indistinta prospettiva, perché la vera e reale prospettiva diventa il peso specifico e contrattuale della forza politica nell’agone istituzionale, con l’inevitabile conseguenza della professionalizzazione del ceto politico. Ben altro, cioè, che i “professionisti della rivoluzione”! Qui in occidente Togliatti non costruisce un percorso rivoluzionario per obiettivi rivoluzionari con un partito rivoluzionario, ma un percorso che nei fatti rinuncia alla prospettiva del potere politico (o di modifica strutturale dello stesso potere, ad es. non prendendo atto sino in fondo della degenerazione della democrazia rappresentativa ad egemonia clericale rispetto alla Carta Costituente e rinunciando a ipotizzare altre forme concrete di istituti democratici) in cambio di un equilibrio contrattuale che mira a rivendicare spazi di conquista dei diritti per le masse lavoratrici come terreno più avanzato nella dialettica sociale. Il concreto riformismo abiurato a parole, è la prassi effettiva del PCI dal 1956 in avanti. Con salti e contraddizioni, s’intende, e con un partito ancorato nella sua base di massa ai principi del marxismo-leninismo. In sintesi e schematicamente: mentre Gramsci aveva rintracciato nella categoria di “guerra di posizione” il perno della transizione per la conquista del potere politico del proletariato (l’egemonia, da conquistarsi con il consenso prima di divenire classe dominante), Togliatti considera la strutturazione di trincee avanzate nella società civile e casematte come equilibrio da spostare in avanti per la contrattazione riformista. Allontanando la prospettiva (in un primo momento) e poi rendendola indistinta.

 

        - Che collegamento allora è da porsi tra prospettiva interna e strategia internazionale nella visione togliattiana?

 

L’internazionalismo degli anni di Togliatti è prima l’internazionalismo proletario, poi il policentrismo e l’”unità nella diversità”. Egli vive la stagione della Terza Internazionale, del suo scioglimento (nel 1943) e gli anni del Cominform. Vive gli anni della scomunica a Tito (1948) e della diaspora cinese (progressivamente dopo il 1956). E il rapporto tra prospettiva interna e strategia internazionale è il rapporto essenzialmente tra il PCI e l’Unione Sovietica. Credo che da questo dipenda lo scarto tra riformismo concretamente praticato già dal 1945 (ad es., la lettura politicista della caduta del governo Parri nel novembre di quell’anno, che Secchia rimprovera aspramente) e un ancoraggio ai princìpi formalmente intesi. Togliatti non concepisce mai la mondializzazione della rivoluzione: non crede cioè che la rivoluzione o è mondiale o non è, marcando una netta antitesi con il trotskismo storico. Nello stesso tempo, però, manca di elaborare il nesso tra prospettiva interna e strategia internazionale per la rivoluzione socialista. Si dirà che questo limite è limite oggettivo: la presenza dell’URSS rendeva impossibile qualsiasi via della rivoluzione a prescindere dalla patria socialista e quindi anche dai suoi interessi geostrategici. E io credo che non potesse non essere così, e giustamente. Ma dopo il XX Congresso, Togliatti, pur criticando nell’intervista a “Nuovi Argomenti”, in uno sforzo di analisi marxista, la disamina storico-politica contenuta nel rapporto di Kruscev, e dunque avvicinandosi oggettivamente alle stesse critiche che verranno elaborate dal Partito Comunista Cinese, legge la fase come una ulteriore possibilità per il rafforzamento del “riformismo” in un paese solo, senza che la critica a Kruscev diventi critica al revisionismo dei princìpi e dunque, per il tramite del “policentrismo”, può rimanere legato all’URSS praticando la “via italiana”. E il ruolo internazionale dell’URSS, anche dell’URSS in progressiva degenerazione (si badi, progressiva e non, come molti compagni marxisti-leninisti ritengono, repentina ed improvvisa, tagliando così la storia a fette ideologiche) era effettivamente enorme, se solo si pensa alla sua posizione di potente  contrappeso all’imperialismo e di sostegno alla decolonizzazione. Il problema in Togliatti è che la prospettiva interna (“la via italiana”) diventa centrale e fa velo all’elaborazione di una strategia internazionale che non poteva sì prescindere dal “policentrismo”, ma quello effettivo, riconoscendo prima di tutto un nuovo ruolo alla Cina popolare di Mao. Ed è proprio questo il senso delle divergenze che si svilupperanno tra il PCI e il PCC, con lo scambio di accuse e gli scritti cinesi abbastanza celebri “A proposito delle divergenze tra il compagno Togliatti e noi” a cavallo tra il 1962 e il 1963. Ne veniva investita anche la lettura della natura dell’imperialismo, che Mao individua come “tigre di carta” per significare che la forza di un popolo è comunque inarrestabile anche di fronte alla minaccia atomica, e che invece, sotto lo schermo della sopravvivenza della specie e per evitare un olocausto, altri, come Togliatti, leggono in funzione di una necessità, quella della coesistenza “pacifica” tra sistemi contrapposti. Una lettura, quest’ultima, che mancava di raccordare proprio le prospettive nazionali di lotta per il socialismo e lo sviluppo di una strategia internazionalista e rivoluzionaria. Altro che pacifica “convivenza”! L’imperialismo mirava a distruggere concretamente proprio tutte le resistenze derivanti dalle lotte dei popoli del mondo.

 

- E’ possibile un giudizio storico marxista sulla vicenda di Togliatti e del PCI “togliattiano”, senza schematismi semplificatori, ma anche senza le indulgenze tipiche di chi ne potrebbe ripercorrere, nel movimento comunista, i limiti?

 

Credo che sia possibile nella massima onestà politica e intellettuale. Non addossare cioè a Togliatti colpe che di Togliatti non sono. Così come evidenziare tutti i limiti della sua linea politica e della strategia, specie dal dopoguerra agli anni ’60, è necessario e doveroso per non ripercorrerne il tracciato. A Togliatti non si può imputare di non aver costituito un gruppo settario che invece di produrre politica ed elaborazioni si limitasse a testimoniare talmudisticamente un verbo che, tra l’altro, dopo il ’56 non ci sarà più nei fatti concreti della storia. Il ‘partito nuovo’ era necessario per trasformare il PCI da partito di gruppi piccoli e compartimentati in un grande partito di massa. Questo partito di massa, però, non è detto che dovesse progressivamente perdere i connotati e le qualità del partito d’avanguardia, così come la sua potente organizzazione di cellule nei luoghi di lavoro. Qui è il punto cruciale e la sfida persa del “togliattismo”: ma non solo di esso, se si pensa alle vicende del partito francese di Thorez e del partito spagnolo della Ibarurri e di Josè Diaz (pur in condizioni diverse, come la natura nazionalista del gallismo in Francia e la clandestinità forzata dal franchismo in Spagna); segno evidente che, mentre nel periodo bellico c’era un centro propulsore di coordinamento strategico dei partiti comunisti come l’Internazionale, il suo scioglimento nel 1943 farà mancare questo coordinamento strategico e porterà al prevalere di politiche particolari, nazionali, senza il necessario respiro internazionalista che non la fedeltà ad un’ URSS che cambierà radicalmente pelle dopo la morte di Stalin nel 1953. Il bilancio critico dell’esperienza di Togliatti porterebbe a cimentarsi con una costruzione di partito comunista nel cuore delle contraddizioni capitalistiche dell’occidente. Una radicalità nella linea politica che miri a rovesciare il sistema capitalistico ed avviare il processo rivoluzionario ha bisogno di principi saldi e di analisi di fase. Coniugare l’uno e l’altro è compito dei comunisti di oggi, per non cadere nel settarismo da “gruppo separato” che non ha né presente in termini di radicamento né futuro, ma evitando l’eclettismo e l’universalizzazione di categorie che pretendono il cambiamento delle fondamenta del paradigma scientifico del marxismo (ciò che può chiamarsi il marxismo-leninismo) quando sono funzionali (se lo sono) ad un momento storico particolare. La flessibilità nelle tattiche e la ricerca di alleanze sociali e politiche della classe operaia, fermo restando la sua assoluta centralità nel conflitto capitale/lavoro, è possibile solo se si ha chiaro un progetto strategico, un disegno di prospettiva per la verifica della coerenza di quelle tattiche e di quelle alleanze. L’attenzione da porre alla dimensione internazionale delle lotte è oggi più necessaria di ieri, proprio in assenza di un centro propulsore di dimensione sopranazionale, che comunque va costruito nel tempo. Evitiamo, dunque, un Togliatti di comodo, nel bene e nel male. Cerchiamo di studiare da marxisti, criticamente, la nostra vicenda storica senza ripudi e liquidazioni opportuniste o sterili apologie, e assumiamoci le responsabilità che ci competono.


Il testo dell'intervista anche su Aginform nr.29/2002


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