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nr.8 - nuova serie - giugno 2003

Ferdinando Dubla 

   E NOI CHE FACCIAMO?

  La questione dell'intellettuale organico gramsciano si ripropone anche oggi tra chierici e neoaccademici

 Il ruolo degli intellettuali è sempre stato oggetto di dibattito in ambito marxista: è che il concetto di prassi (unità dialettica di teoria e pratica) di Marx ha imposto una ridefinizione strutturale per l’analisi del ruolo degli intellettuali nella società borghese. E dunque ha delineato un nuovo ruolo per gli intellettuali comunisti, rivoluzionari. Da qui, come si sa, prese le mosse il nostro Antonio Gramsci per scrivere delle note dal carcere che rimangono una pietra miliare anche per l’orientamento nella fase attuale. Le nuove elaborazioni antagoniste «di movimento» rischiano di espropriarci di Gramsci (le sue categorie analitiche, egemonia, blocco storico, riforma intellettuale e morale) proprio nel momento in cui ne avremmo più bisogno. Ma non solo il movimento ritiene di non aver più bisogno di Gramsci: anche molti comunisti (o che si ritengono senza dubbio tali) nella loro pratica tendono a rimuoverlo. Nella loro pratica, nei loro comportamenti, anche quando lo omaggiano o utilizzano le sue categorie teoriche.

Il ruolo degli intellettuali nella grande periferia (interna ed esterna) della cittadella imperialista è quello di acconsentire al disegno di dominio o di sparire, essere annientati come ruolo sociale e settorializzati nei propri specialismi poi resi ‘organici’ alle dinamiche capitaliste.  La fine dell’intellettualità di massa è l’orizzonte al quale mira la strategia neo-imperialista dominante: e via quindi gli intellettuali «coscienza critica» della sempre più stretta “democrazia” del capitale, tentativo di spezzare l’organicità a un blocco storico-sociale alternativo: l’unica possibilità per riappropriarsi del ruolo è essere cantori delle decisioni prese dalle oligarchie economiche e politiche.

In contrapposizione, il compito della “riforma intellettuale e morale” dunque, non potrà che essere ancora degli intellettuali organici, non cristallizzati, che la determineranno e organizzeranno, adeguando la cultura anche alle sue funzioni pratiche, addivenendo a una nuova organizzazione della cultura. Il partito comunista si pone, per Gramsci, come sintesi attiva di questo processo: intellettuale collettivo di avanguardia, la direzione politica di classe lotterà per l’egemonia.

In passato, l’interpretazione togliattiana del ruolo dell’intellettuale comunista forzava l’organicità come organicità al partito e ai suoi gruppi dirigenti: era il partito che indirizzava finanche la ricerca intellettuale verso scopi di linea politica, magari per rendere coerente una strategia complessiva alla stessa. Anche quando coerente non era. Per cui lo stesso gruppo dirigente in definitiva promuoveva gli intellettuali, in base alla capacità di interpretare post-factum la linea politica tra tattica e strategia. Una concezione siffatta di organicità ha davvero poco di gramsciano: e molto invece della funzione di chierico, l’unico ruolo assegnato dalle classi dominanti ai propri intellettuali. Ma il blocco storico borghese aveva grandi intellettuali (secondo Gramsci) che effettivamente e non post-factum riuscivano a elaborare le relazioni sovrastrutturali, culturali, etiche del pensiero dominante. Il PCI  ebbe tanti dirigenti politici intellettuali (fra cui Togliatti, appunto o Mario Alicata), pochi intellettuali dirigenti politici (lo stesso Gramsci, Concetto Marchesi e non molti altri). E’ un limite storico che noi oggi dobbiamo avvertire, naturalmente non con il solito atteggiamento liquidatorio delle «anime belle», ma semmai per porci più compiutamente nel solco gramsciano. Il partito comunista, per Gramsci, è intellettuale collettivo; e l’intellettuale comunista è organico alla classe e dunque a questo collettivo perché fa parte del blocco storico-sociale che deve costruire il nuovo mondo.

“Per intellettuali occorre intendere non solo quei ceti comunemente intesi con questa denominazione, ma in generale tutto lo strato sociale che esercita funzioni organizzative in senso lato, sia nel campo della produzione, sia in quello della cultura, e in quello politico-amministrativo (..)”. Quali atteggiamenti psicologici essi hanno nei confronti delle classi fondamentali?: “hanno un atteggiamento paternalistico verso le classi strumentali? O credono di esserne una espressione organica?” (Q.19,1933/34).

Non notifica e abbellisce la linea politica con elaborazioni ricche e articolate, con il sapere appreso all’accademia. Non è il partito che decide gli oggetti di ricerca: ma questi scaturiscono, appunto, dalla sua organicità alla classe. E, si badi, il concetto gramsciano di “organico” rispetto alla proiezione di classe non è contiguo a quello del ruolo dell’intellettuale che riprenderà, ad es. Horkheimer nell’ambito della teoria critica francofortese, quando porrà l’impossibilità di renderlo interno alle organizzazioni proletarie in una consapevolezza autocontraddittoria che si riconoscerà funzionale al capitalismo e riproporrà sì una nuova dignità, ma ancora intellettualistica e solo con una generica tensione antagonista al potere delle classi egemoni.

Per semplificare oltremodo, l’intellettuale marxista non si rende funzionale a una linea politica, ma elabora nel collettivo, con gli strumenti suoi propri, la strategia complessiva dei comunisti. Egli riposiziona il suo ruolo, in quanto deriva dalla rottura del blocco storico-sociale delle classi dominanti. Ecco perché non può essere né chierico né neoaccademico: il chierico ha perso la libertà per una disciplina opportunista, il neoaccademico si svincola da ogni disciplina di classe in favore della propria (apparente) libertà, che si rivela sterile come strumento di lotta. Discorso particolarmente valido nella fase attuale, di costruzione del collettivo organizzato in partito comunista, piuttosto che di dato di fatto compiuto storicamente.

Ma la stessa fase è attraversata da un paradosso: mentre si considera antiquata l’analisi gramsciana sull’organicità dell’intellettuale, si richiede allo stesso un’organicità a luoghi di decisione politica del tutto autoreferenziali, riproducendo il limite storico già di un periodo storico molto lungo del PCI.

Chi si svincola da questa organicità (che non è quella gramsciana) ha solo l’alternativa di riprodurre i vizi dell’accademia, oppure può concepirsi come interno a un collettivo che elabora una prassi funzionale alla classe? Ha da pagare un prezzo per questo, che è l’abbandono di posizioni di privilegio o nicchie dorate, ma l’autodisciplina intellettuale e l’autonomia morale, conquiste che secondo Gramsci sono possibili solo costruendo la società «autoregolata», non discendono dall’empireo delle idee astratte, ma nel concreto operare della lotta delle classi.

E noi comunisti che facciamo? Rifiutata la funzione di chierici o di neoaccademici, c’è comunque bisogno di stimolare lo sviluppo di nuovi intellettuali organici. Il cambiamento dello stato di cose presenti, ha necessità di un’intellettualità comunista diffusa che non riproduca la funzione assegnatagli dalla borghesia o che ricada negli stessi limiti che ne hanno provocato la scarsa creatività. La sostituzione del movimento al partito, sposta e dilata la questione, non la risolve.

Riabituarsi piuttosto a elaborare collettivamente, confrontare la propria ricerca (e gli oggetti della propria passione intellettuale) con i soggetti i quali quella ricerca utilizzeranno come strumento di lotta ed esercizio d’egemonia. Fondere la razionalità della scienza politica e le corde emotive del popolo-nazione, come lo chiama Gramsci e sentirsi parte funzionale della classe.

Ragionare della necessità della riappropriazione del ruolo di intellettuali “organici” ad un nuovo blocco storico-sociale alternativo, in qualità di comunisti e rivoluzionari che sentono ancor prima di comprendere, non è quindi operazione peregrina, perchè anche l’intellettuale organico di oggi ha necessità non solo di sapere e di comprendere, ma di sentire: “L’errore dell’intellettuale consiste <nel credere> che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato (non solo del sapere in sé, ma per l’oggetto del sapere) cioè che l’intellettuale possa essere tale (e non un puro pedante) se distinto e staccato dal popolo-nazione, cioè senza sentire le passioni elementari del popolo, comprendendole e quindi spiegandole e giustificandole nella determinata situazione storica, e collegandole dialetticamente alle leggi della storia, a una superiore concezione del mondo, scientificamente e coerentemente elaborata, il “sapere”; non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione. (..)” (Q.11)

C’è chi alzerà il sopracciglio alla lettura di termini come popolo-nazione, ma, come scrisse Rocco Scotellaro, o si canta la stessa canzone della classe di cui si chiede la redenzione, oppure rimarremo pur savie, ma pecore del padrone.

 

Ferdinando Dubla, maggio 03



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