linea Rossa
(nr.15 - aprile-maggio 2000)

 

LA MEMORIA RITROVATA



Una recensione del direttore di Linea Rossa all'ultimo lavoro di 'Gracco' La rivoluzione negata, Città del sole ed., 1999

RISORGIMENTO, RESISTENZA E RIVOLUZIONE

Nel saggio di Angiolo Gracci sulla ‘rivoluzione negata’, una riflessione storico-politica matura dell’intreccio tra identità nazionale giacobina e antimoderata, lotta di classe, ‘quistione meridionale’ e processo rivoluzionario

----- Ferdinando Dubla -----


G.Friedmann, dopo la rivolta del maggio parigino nel ’68, scrisse:
“Molti sono coloro che si immergono totalmente nella politica militante, nella preparazione della Rivoluzione sociale. Rari, molto rari, sono coloro che, per preparare la Rivoluzione, intendono rendersene degni.”
(La puissance et la sagesse, Paris, 1970, pag.359).
Angiolo Gracci, combattente garibaldino nella Resistenza antifascista italiana (1943-45), è un emblema della coerente dignità di un rivoluzionario a tutto tondo, che sa di dover operare un consuntivo della propria attività incessante, in quanto il bilancio critico dell’esperienza è la strada maestra della stessa progettazione rivoluzionaria. Gracci ha scelto un evento-simbolo per questo bilancio, un evento che gli permette di tirare il filo ‘rosso’ che porta direttamente agli interrogativi di oggi, al ‘che fare?’ qui e adesso: la rivoluzione napoletana del 1799 [La rivoluzione negata Il filo rosso della Rivoluzione italiana, memoria storica e riflessioni politiche nel Bicentenario 1799-1999, prefazione di Guido D’Agostino, La Città del Sole, 1999].
L’occasione del bicentenario, da poco sorpassato, gliene offre l’occasione: ma l’evento storico, letto attraverso i processi politici profondi, le implicazioni ideali, il martirologio calpestato dalla jena reazionaria e dalla canaglia sanfedista (il filo ‘nero’, che con il suo segno egemonizza l’organizzazione sociale dominante) è il segno di quella primavera del riscatto che ancora ricerchiamo, che è stata la ricerca dei giacobini eredi della rivoluzione francese, delle avanguardie leniniste eredi sia del robespierrismo e del buonarrotismo che della rivoluzione d’ottobre, del laboratorio gramsciano e dei meridionalisti progressisti, dei partigiani antifascisti e il sogno, l’impegno per la liberazione sociale integrale; infine dei resistenti di oggi alla globalizzazione capitalista, di tutti coloro, cioè, che si oppongono alla cancellazione storica della memoria, al revisionismo storico e politico, erede diretto del filo ‘nero’ delle classi dirigenti borghesi reazionarie (borghesia reazionaria versus la stessa borghesia progressista promotrice dell’istanza radicale della trasformazione sociale). Per un militante comunista, che porta i segni indelebili del maoismo come Gracci, vissuto e impersonato in modi tutt’altro che dottrinari e schematici, liturgici, è ancora la contrapposizione tra la ‘linea nera’ e la ‘linea rossa’:

“Questa contraddizione consegue alla ‘lotta tra le due linee’ che, latente o esplicita, si è manifestata, praticamente fin dall’inizio, tra la componente politica democratico-moderata e quella democratico-rivoluzionaria. Potremmo dire trattarsi, in fondo, di una conflittualità ereditata e già corposamente evidente nella Rivoluzione francese. Più obiettivamente, potremmo definire il fenomeno come una contraddizione interna alla pur positiva azione svolta, nella storia, dalla borghesia nella sua fase rivoluzionaria.
Mao Tse Tung ha insegnato come il principio del ‘l’uno che si divide in due’ sia alla base della visione dialettica della realtà e come questo, in politica, nello scontro di classe che ne è l’essenza principale, si traduca appunto nella cosiddetta ‘lotta tra le due linee’”. [pag.191]

La chiave è però tutta nostra: la costruzione dell’identità nazionale, la piena rivendicazione dell’autonomia e sovranità del nostro paese, senza della quale ogni radice profonda dei processi rivoluzionari è destinata a rimanere sterile e infruttuosa. Sovranità e piena indipendenza calpestata  da eserciti stranieri e dalle armate clericali (come chiaro ed evidente nel caso della rivoluzione napoletana del ’99) e, ancor oggi, limitata e circoscritta, soffocata, dagli eredi diretti di quei poteri, l’imperialismo USA e il Vaticano.
La rivoluzione partenopea che conclude sanguinosamente il secolo XVIII  del nostro paese, è la genesi oggettiva del complessivo moto risorgimentale. Così come le Quattro giornate di Napoli (28 settembre- 1 ottobre 1943) costituiscono la genesi oggettiva del complessivo moto resistenziale antifascista. Genesi oggettiva, si badi: oltre, cioè, la piena coscienza dei partecipanti a quei moti. E che ciò avvenga a Napoli, capitale del Mezzogiorno, è destinato, per Gracci, a lasciare una traccia indelebile nella costruzione, appunto, dell’identità nazionale:

“Allora, in quel 1799, Napoli, storico caposaldo dell’antica civiltà mediterranea, era stata teatro dell’ultima difesa, in Europa, del grandioso sogno politico giacobino di ‘libertà, fratellanza ed uguaglianza’ per l’intera umanità; adesso, i suoi popolani, i soldati sbandati, i giovanissimi studenti, gli scugnizzi e un pugno di intellettuali infliggendo, prima città nell’Europa occupata, una sconfitta a forze che, all’epoca, rappresentavano, sul piano politico-sociale, la forma più efficiente raggiunta dalla reazione.” [pag.249]

Nel 1943, nella storia italiana, operai e contadini, sempre pronti allo sciopero, all’agitazione, alla solidarietà politica, alla lotta, parteciparono ad un grande movimento nazionale e democratico, che segnò una svolta fondamentale nella storia del paese. Ed è proprio la lotta di massa, portata sui luoghi di lavoro con un intreccio di rivendicazioni economico-politiche, il tratto tipico della Resistenza italiana rispetto a quella degli altri paesi.
Il movimento partigiano esprimeva socialmente un’Italia dei lavoratori; a questa partecipazione doveva corrispondere nei programmi politici degli antifascisti una contropartita di gestione popolare nello stato che doveva nascere dopo l’abbattimento del fascismo. Da ciò, quindi, è facile dedurre come la Resistenza e la Costituzione siano intimamente legate. E come la Costituzione del 1948 sia strettamente legata al Progetto di Costituzione della Repubblica napoletana del 1799, come dimostrato dalle pagine in appendice documentaria de La rivoluzione negata, in particolare in un punto spinoso e controverso: il popolo ha diritto di resistenza, “baloardo di tutti i dritti”; articolo consimile  fu non a caso bocciato dai moderati dell’Assemblea Costituente nel 1947.
Chi meglio di Gramsci, morto nel 1937, aiuta a riannodare questi fili? La ‘quistione meridionale’, il Risorgimento, il giacobinismo, la costruzione del processo rivoluzionario nel nostro paese, sono temi centrali della sua riflessione, interamente inscrivibili nel marxismo e nella sua attualizzazione nell’epoca dell’imperialismo, nel leninismo.
Il Risorgimento è stato storicamente un processo che ha portato alla formazione dello Stato nazionale unitario e indipendente. Esso è stato il prodotto di un riscatto politico-morale legato ai movimenti liberal-democratici, espressione della Rivoluzione francese. Partendo da questa prospettiva, Gramsci ha visto il Risorgimento italiano come intimamente legato al processo di trasformazione politico-sociale iniziatosi attivamente con gli avvenimenti francesi del 1789, che si sono tradotti e trasferiti gradualisticamente, riformisticamente, passivamente in Italia, portando comunque, nonostante le deficienze dei movimenti politici e l’immaturità delle classi sociali, alla dissoluzione dell’antico regime. Il termine ‘rivoluzione passiva’ Gramsci lo mutua proprio dal Vincenzo Cuoco, storico testimone degli eventi rivoluzionari del ‘99:

«Dalla politica dei moderati appare chiaro che ci può e ci deve essere una attività egemonica anche prima dell’andata al potere e che non bisogna contare solo sulla forza materiale che il potere dà per esercitare una direzione efficace: appunto la brillante soluzione di questi problemi ha reso possibile il Risorgimento nelle forme e nei limiti in cui esso si è effettuato, senza ‘terrore’, come ‘rivoluzione senza rivoluzione’, ossia come ‘rivoluzione passiva’.»
(A.Gramsci: Il Risorgimento, Editori Riuniti, Roma, 1971, pp.95.)

Gracci si riallaccia fortemente a quella lettura, rivendicando una continuità piena con la tradizione comunista italiana, sottolineandone, da una parte, la fecondità degli sviluppi reali [la Resistenza, l’esperienza di Secchia, la lotta al revisionismo e al riformismo che emergerà da quel filone anche e soprattutto fuori del Pci (per quest’ultimo punto, Gracci ne aveva scritto nella prefazione al mio Secchia, il Pci e il ’68, 1998)] e dall’altra un’assenza e una sottovalutazione grave: lo studio, l’analisi compiuta delle modalità di costruzione dell’identità nazionale sotto l’egida moderata, intrecciata fortemente alla storia del Mezzogiorno, e su cui proprio Gramsci si era speso in maniera straordinaria nei suoi ‘quaderni dal carcere’.
Il carattere nazionale della questione meridionale si è caratterizzato dal fatto che tutti i problemi del Sud, qualificati come specifici, si sono dissolti costantemente nei problemi più generali della società italiana, sottoposta alle scelte politiche e alle leggi economiche del capitalismo moderno che ha privilegiato gli interessi privati rispetto a quelli collettivi. Il meridione è ancora adesso questione nazionale, nell’epoca della cosiddetta globalizzazione, nel senso di un processo reale prodotto dal capitalismo e funzionale alla sua esistenza, alle sue leggi interne di sviluppo fondate sulla proprietà privata, il profitto, la disuguaglianza sociale.
Il processo risorgimentale portò la borghesia alla direzione politico-economica del nuovo stato unificato; gli interessi di questa classe determinarono un processo di industrializzazione accelerato, protetto dal regime protezionistico e comportò elevati profitti (accumulazione) pagati dalla classe operaia settentrionale e dalle masse di contadini del Sud. Fu lo stesso processo, però, che portò (fecondità dell’analisi marxista) gli strati sociali popolari (a Napoli i lazzari citati da Gracci, nello stesso tempo esempio di massa di manovra per la mobilitazione reazionaria e/o soggetto pur disgregato per la mobilitazione rivoluzionaria) a costituirsi in proletariato.
Gracci invita dunque ad avere una visione diversa del piano di sviluppo nazionale: se la questione meridionale tende a coincidere, gramscianamente, con la questione settentrionale, la questione nazionale è sempre più coincidente con la questione sociale. Risolverle significa operare per un processo nuovo che rimetta in piedi la speranza per un progetto storico di giustizia da secoli calpestata: “la guerra di classe è trasversale a tutte le guerre, e questo è evidente soprattutto dalla Rivoluzione Francese in poi”. (pag.270)

 L’implicito messaggio, che mi appare palese forse per la diretta conoscenza dell’autore, è che nessun internazionalismo autentico è possibile, meno che mai quello proletario e rivoluzionario, senza innestarlo sulle radici nazionali. Non nazionaliste, al contrario: nell’epoca della globalizzazione capitalista lo ‘sradicamento’ è funzionale all’asservimento al capitale. Lotta di classe e identità nazionale sono, insomma, reciprocamente interdipendenti: un’interdipendenza non teorizzata, ma vissuta in prima persona senza immediata mediazione culturale dai resistenti partigiani come Gracci.
Negata la rivoluzione, la rivoluzione è sconfitta? ‘Gracco’ invita a riprendere il filo ‘rosso’ nelle nostre mani e a dipanarne l’infinità possibilità di dispiegamento. Contro il disfattismo, l’attendismo, alleati del revisionismo non solo in tempi di ‘guerra manovrata’, ma ancor più in quella ‘di posizione’, ci chiama alle incombenze di oggi: il cammino è difficile, sembra dirci con questo libro, con il suo magistero e la sua lezione di vita, ma non è mai stato facile. La rivoluzione non è mai stata ‘un pranzo di gala’, ma è sempre possibile e sempre attuale: come il capitalismo porta con sé, in grembo, la nuova società, così la linea nera può essere sconfitta dalla linea rossa, così il filo ‘rosso’ sconfiggerà il filo ‘nero’.


In questo stesso sito:
la biografia di Angiolo Gracci
la recensione di Russo Spena al libro di Gracci su Liberazione

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