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Angiolo Gracci (fondatore):la vita, gli scritti
Ferdinando Dubla (direttore):biografia e opere
 

 

Il giovani e la "svolta" del 1929-30: come fare politica nonostante il fascismo

Intervento di Ferdinando Dubla al Convegno di Roma del 18 e 19 febbraio 2011: Nodi strategici, continuità e svolte nella storia del Pci - convegno organizzato dall'Assoc. Marx XXI all'Università La Sapienza

La Federazione Giovanile Comunista d’Italia degli anni tra il 1927 e il 1930, la FGCd’I di Luigi Longo, Pietro Secchia, Celeste Negarville, Edoardo D’Onofrio, Altiero Spinelli , che aveva conosciuto la guida di Luigi Polano, Giuseppe Berti e Guido Dozza -  è stata, nell’esperienza storica del movimento operaio italiano, una straordinaria, terribile e nello stesso tempo indimenticabile fucina di lotte sociali in condizioni progressivamente sempre più difficili e protagonista di un articolato dibattito politico.

Lo testimonia, in sede di resoconto storico, “La Lotta della gioventù proletaria contro il fascismo”,  un testo di raccolta, una sintesi documentaria scritta a caldo,  di quelle esperienze,  che venne realizzato a Parigi nel giugno del 1930 dall’allora segretario della Federazione giovanile comunista Pietro Secchia, con la collaborazione di Cino Moscatelli; fu stampato a Berlino presso le edizioni dell’Internazionale giovanile comunista e diffuso clandestinamente in Italia dai giovani che si battevano contro il regime mussoliniano.

Nell'aprile del 1930, l'Italia fascista subì uno scossone sociale che lasciava prefigurare tristi sventure per il regime, che dopo la firma dei Patti Lateranensi cercava un consenso pressoché totale da parte della popolazione italiana. Ma il consenso era ancora fragile e si scontrava con le imposizioni fiscali e la progressiva corporativizzazione, inquadrate nella  grave crisi del capitalismo mondiale e  negli effetti deflagranti del crollo della Borsa di New York (ottobre 1929): il pagamento delle quote ai sindacati fascisti, le continue riduzioni salariali, la difficoltà di trovare occupazione stabile, le tasse sulla vendita e il commercio delle derrate agricole, unite all'insofferenza verso le sempre più frequenti soverchierie dei podestà di nomina regia (con la legge del 2/9/1926 questi avevano sostituito i sindaci elettivi), provocarono un diffuso malcontento e veri e propri episodi di rivolta, specie nell'Italia meridionale, che vedeva aggravare e incancrenire i propri problemi già pre-risorgimentali. Nel 1930, alla violenta manifestazione di protesta degli operai di una fabbrica di Parabiago (Milano) che arrivarono a vere e proprie dimostrazioni di 'luddismo' con lo sfasciamento dei macchinari e ai combattivi cortei di disoccupati che attraversarono Livorno, Signa e Fucecchio (Firenze), fecero eco nel Mezzogiorno l'assalto alla podesteria di Faito (Avellino), l'attacco al municipio di Lecce, insurrezioni con uso di armi a Barletta e la vera e propria rivolta di Martina Franca il 3 aprile.

Protagonista di queste lotte concomitanti fu la disperazione sociale delle masse, anche se il loro carattere assolutamente spontaneo ne privò la forza d'urto: nessuno in quel momento poteva organizzare e coordinare le singole battaglie per trasformarle in un incendio rivoluzionario che avrebbe prima messo in seria difficoltà il regime, e poi dato la spallata finale.  Poteva o voleva? La situazione era realmente preinsurrezionale? O i bagliori davano solo l'impressione della loro vividezza? Il Partito Comunista, nel 1930, attraversato da una drammatica crisi interna, accentuata dalla ferocia repressiva del fascismo nei suoi confronti, con l'arresto, il confino e l'esilio dei suoi dirigenti, il pestaggio e l'uccisione continua dei suoi militanti, se lo chiese e molti dei suoi più giovani dirigenti, come Luigi Longo ("Gallo") e Pietro Secchia (esponente allora dei giovani comunisti), cercarono di interpretare la 'svolta' del 1929 della III Internazionale (nota per il giudizio liquidatorio della socialdemocrazia equiparata al fascismo)  in un senso attivistico, non attesista e temporeggiatore, come sembrava invece nell'atteggiamento prevalente di Grieco, Tasca, ma soprattutto, prima del pronunciamento dell'Internazionale, di Togliatti.

La discussione sulla “svolta” si era incrociata,infatti, in Italia, con i dibattiti che animavano i comunisti italiani (in particolare, i giovani comunisti e il partito ‘adulto’) sulla cosiddetta “doppia prospettiva” e sulla necessità non solo di tenere attivo, ma di rafforzare e sviluppare il Centro interno rispetto al Centro estero. Il Centro interno operava a Sturla, alla periferia di Genova, ed era diretto da Camilla Ravera, Alfonso Leonetti e Ignazio Silone. Il Centro estero si era stabilito, nella seconda metà del febbraio 1927 a Parigi e Togliatti lo dirigeva insieme alla rivista di orientamento ideologico Lo Stato operaio. I rapporti tra i due centri non era sereno e, come testimonierà Secchia posterioremente, i compagni avevano l’impressione che il centro estero perdesse troppo tempo in sterili e accademiche dispute ideologiche, troppo astratte e avulse dai duri e difficili compiti del momento.

La repressione e la falcidia di militanti non aveva dunque fermato il dibattito, la discussione, il confronto dialettico; eppure il 1927 era stato un anno terribile: da un rapporto di Edoardo D’Onofrio del 4 ottobre di quell’anno all’Ufficio politico del PCI, a fronte di 6771 iscritti nel mese di maggio al Partito, la cifra per la FGCI deve situarsi in 2800-3000 iscritti, che alla fine dell’anno scendono ancora di un terzo. Eppure, nello Schema di lavoro organizzativo per l’Italia centrale, meridionale e insulare del 1928, i comunisti si interrogano sulle loro proprie insufficienze, come la scarsa penetrazione tra i contadini, specie nel Mezzogiorno e nelle isole, l’impreparazione dei quadri, scarse avanguardie tra la classe operaia, ecc..[1] E dopo l’attentato al re del 12 aprile 1928, sui comunisti si scatenerà una ulteriore feroce repressione:

“Cinquecentosessanta antifascisti, la maggior parte del PCI, sono tratti subito in arresto. Ma più che dagli arresti indiscriminati l’organizzazione clandestina è colpita dalla caduta, in maggio, di Gerolamo Li Causi, Giuseppe Amoretti e Edoardo D’Onofrio, i tre dirigenti che (con Longo) hanno ricevuto il compito di ricostituire il Centro interno. (..) L’11 maggio è arrestato in un albergo di Bologna Edoardo D’Onofrio (che ha un passaporto svizzero) e a Roma, con Anna Bessone, Giuseppe Amoretti, che è uno dei migliori giornalisti allevati da Gramsci.”[2]

Con la cattura di Amoretti, Li Causi e D’Onofrio, il PCd’I si troverà senza collegamenti con l’interno del paese, ed è anche per questa ragione che vengono cooptati nel Comitato Centrale Secchia, Di Vittorio e Dozza, nonostante che critiche di Secchia all’imprudenza e imperizia organizzativa che avevano contribuito ai tradimenti, alle infiltrazioni, ai cedimenti, come non mancheranno di rimarcare anche Leonetti e Tresso, la cui forte dissenso sarà, due anni dopo, causa di una grave frattura nel gruppo dirigente.

Questo era il clima, dunque, ma nondimeno nell’ottobre-novembre del 1927 il contrasto tra la FGCd’I e il partito si era fatto particolarmente acuto e lo scambio di lettere, tramite l’Ufficio politico, tra Longo e Togliatti mostrava una dialettica aspra: Togliatti arriva ad accusare Longo e dunque i giovani comunisti, di essere lontani dalla linea decisa al Congresso di Lione del 1926 e neanche tanto velatamente di non essersi liberati del bordighismo. Per una buona parte del 1927 il confronto si era sviluppato sulla parola d’ordine dell’Assemblea repubblicana, che ai giovani appariva sbagliata, perché strategicamente l’identificazione tra fascismo e capitalismo e la radicalizzazione della crisi, portava alla necessità immediata della “rivoluzione proletaria”, cioè il governo degli operai e dei contadini, senza passare dalla fase della “rivoluzione popolare”. Di questo non era per niente convinto ‘Ercoli’, che nei suoi interventi sembra consapevole che bisognasse prima strappare le masse dall’influenza fascista e moderata e dunque attrezzare il partito a un’ efficace e conseguente ‘linea di massa’:

“(..) il partito comunista commetterebbe un errore nefasto se esso pensasse che l’aggravarsi della situazione oggettiva (economica e politica), lo sterminio quasi completo dell’opposizione organizzata contro il fascismo e la fuga dei partiti socialdemocratici e antifascisti nell’emigrazione conducessero necessariamente in maniera automatica alla affiliazione della maggioranza della classe operaia al partito comunista e che le masse degli operai e dei contadini si riunissero automaticamente introno al proletariato. Una simile valutazione della situazione non ha niente in comune con il marxismo e il leninismo.”[3]

 Con Togliatti sono i suoi due più stretti collaboratori del nuovo gruppo dirigente, Tasca e Grieco e all’interno della FGCd’I, D’Onofrio e Dozza.

Negli anni del lavoro prima semilegale, poi illegale e clandestino, i giovani comunisti applicavano con tenacia e coraggio una linea di massa,[4] un tentativo costante di penetrazione nelle fabbriche, nelle campagne, nei dopolavoro e nelle scuole, una linea di resistenza sul territorio nazionale che getterà le basi della resistenza organizzata, di una prospettiva insurrezionale che doveva radicarsi nel popolo per concepire una lotta di liberazione guidata sì da avanguardie, ma progressivamente di massa e popolareTutti i problemi dibattuti erano stato posti, con qualche prudenza e tentativo di sintesi, alla Conferenza di Basilea del gennaio 1928:

"(..) nella II Conferenza nazionale, svoltasi a Basilea nel gennaio 1928 (.) parteciparono una quarantina di delegati, in parte provenienti clandestinamente dall'Italia e in parte dall'emigrazione. Con il lavoro venne continuato anche l'esame autocritico e i comunisti ritennero necessario elaborare una nuova linea politico-organizzativa che consisteva essenzialmente nello spostare il centro di gravità all'interno delle organizzazioni del fascismo, cioè nei dopolavoro, nelle organizzazioni giovanili e nei sindacati fascisti, nelle associazioni sportive, culturali e anche nelle file della milizia fascista." [5]

 Ma Grieco, in accordo con Togliatti, replicando ad alcune affermazioni venute dalla tribuna che ponevano all'ordine del giorno la necessità di organizzare la lotta armata per l'insurrezione rivoluzionaria, era stato categorico: 

 "Questa mentalità appartiene a quella dei fuoriusciti piccolo-borghesi arrabbiati; ma nel nostro partito noi dobbiamo curare che non si manifestino stati d'animo simili, segno di decomposizione ideologica. (..) Noi dobbiamo organizzare le agitazioni, noi dobbiamo difendere le masse.(..) noi dobbiamo distruggere nei compagni l'illusione deleteria che potrebbe nascere in loro dal pensiero che noi possiamo organizzare piccole insurrezioni che trascinerebbero tutto il popolo.(..) dobbiamo noi organizzare piccole insurrezioni e colpi di mano? No, noi non lo dobbiamo(..) Noi siamo per la organizzazione della rivoluzione; noi siamo contro la rivoluzione spontanea."[6]  

Nella testimonianza di Secchia, è reso chiaro come, nel periodo 1927/1932, molte organizzazioni di base premevano per il ricorso ad azioni di lotta armata "e per contro il partito respingeva immediatamente ed energicamente tali propositi. Li respingeva e condannava come deviazioni terroristiche, come anarchismo, blanquismo, ecc.. Si giudicavano quei propositi come prodotto della passività, manifestazioni di sfiducia nelle masse, di stanchezza e di demoralizzazione. (..) Tutta la polemica condotta in particolare da Grieco, alla II Conferenza del PCI a proposito del 'terrorismo' è dominata dall'unica preoccupazione che i comunisti e gli operai in Italia, nella lotta contro il fascismo, uscissero fuori dagli schemi tradizionali. (..) Non solo non si conduceva la lotta armata, ma non si faceva neppure la propaganda sulla necessità di prepararsi alla lotta armata. C'era il manifesto timore che ciò potesse portare alle deviazioni terroristiche. Si condannava senz'altro come deviazioni di destra o di sinistra ogni idea che i compagni manifestavano di voler condurre una più forte azione contro il fascismo e di non limitarsi alla diffusione della stampa.".[7]

Successivamente, l'indicazione cominternista, resa nota e discussa nell'autunno del 1929, rimise al centro la questione (preparare l'insurrezione nelle forme e nei modi possibili o attendere i 'giusti' e 'maturi' tempi) e molte argomentazioni, nell'aspra discussione politica, ruotarono anche intorno all'interpretazione dei fatti dell'aprile 1930. Sulle colonne dello Stato Operaio n.5/6 del maggio-giugno 1930, si evidenziava come fosse necessaria e non più procastrinabile l'organizzazione e la presenza radicata del partito tra i contadini e il loro conseguente armamento :

      "E' necessario il collegamento tra l'azione delle masse operaie e quella delle masse contadine. La notizia dei fatti della Miani e Silvestri (fabbrica napoletana dove erano avvenuti episodi di rivolta delle maestranze, ndr) ad esempio, era diffusa in provincia di Lecce e di Taranto, ma probabilmente solo limitatamente. Occorre che le masse contadine del sud sappiano che gli operai si muovono. D'altronde noi crediamo che il partito debba agire subito e largamente nell'Italia meridionale, anche per altre ragioni. In questo momento ci troviamo nell'agricoltura di fronte ad una crisi permanente alla quale si sovrappone una crisi congiunturale, della quale non possiamo prevedere gli svolgimenti ulteriori."

 I fatti del 1930 erano la spia di un più grande malessere su cui i comunisti dovevano convogliare i loro sforzi:  l'alleanza operai-contadini, così necessaria per innescare un processo rivoluzionario nella prospettiva socialista, come già e argutamente nell'analisi di Gramsci del 1926, doveva costituire il perno per trasformare la lotta difensiva in lotta offensiva. Era questa la ricezione che molti dirigenti comunisti ritenevano essere la più conseguente all'indicazione del Comintern del 1929, quella del 'socialfascismo' e della 'fascistizzazione della socialdemocrazia', dell'equivalenza del riformismo socialdemocratico a variante borghese del fascismo, concepito in sostanza come tentativo di penetrare opportunisticamente negli strati operai. Bisognava opporre una capillare organizzazione delle masse, che rendesse anche ideologicamente meno permeabile l'attendismo passivo di matrice social-riformista. Luigi Longo, "Gallo", osservava,  in un articolo intitolato Sul carattere dei movimenti di massa attuali, sempre sulle colonne dello Stato Operaio (n.5-6, cit.) e sempre a proposito delle esplosioni di rivolta del 1930, che gli sforzi dei comunisti dovevano tendere :

" 1) a organizzare le grandi masse per portarle unite e compatte alla lotta; 2) a coordinare, unificare le varie esplosioni della rivolta antifascista in un movimento di insieme e di massa; 3) ad orientare il lavoro, tutto il lavoro, verso prospettive di lotte decisive prossime.(..) quanto maggiori progressi avremo fatti sulla via dell'organizzazione e della direzione delle masse e quanto meno, anche ideologicamente, ci lasceremo prendere alla sprovvista."

Emilio Sereni aveva esplicitamente posto "il problema dell'armamento delle masse", segno inequivocabile che una parte dei comunisti riteneva giunto il momento di passare ad un'azione organizzata di lotta armata contro il regime. E che questa fosse la questione dominante nella riflessione del Centro interno del PCI, era confermato dalla discussione, come già rilevato,  avvenuta già nel gennaio 1928 alla II Conferenza nazionale a Basilea, dove la polemica era avvenuta tra Grieco e Togliatti (appoggiati da Tasca) e la leva dei giovani comunisti, Secchia e Longo in primo luogo[8] .

 

 Le Tesi della Conferenza, tra l'altro, nell'accentuare il ruolo degli agrari e della componente 'proprietà fondiaria' per l'avvento del fascismo, nonchè la sottolineatura sulla struttura delle campagne e la genesi e lo sviluppo del capitalismo agrario, miravano a "respingere le posizioni (..) che su questi problemi venivano avanzando i 'giovani' raccolti attorno a Longo e a Secchia. Sottolineare i risvolti dell'arretratezza significava implicitamente introdurre mediazioni nelle stesse equazioni così rigidamente presentate (fascismo-capitalismo-situazione insurrezionale, ndr) (..) e elevare una barriera analitico-interpretativa dinanzi alle parole d'ordine che tendevano ad eliminare i problemi della gestione politica del passaggio dall'uno all'altro dei poli delle equazioni citate."[9]

La II Conferenza del PCd'I si tenne, come si è già citato in apertura, a Basilea tra il 29 e il 31 gennaio 1928. Si discusse sulla situazione internazionale (relazione di Togliatti), sul lavoro in Italia (relazione Grieco) e sulla questione sindacale (relazione Ravazzoli). La posizione di Togliatti è possibile evincerla anche e soprattutto nel rapporto letto il 5 giugno 1928 nella riunione del CC del PCd'I (5/11-6-1928) e su  La situazione in Italia e i compiti del Partito Comunista italiano, articolo per la Correspondance internationale (anno VIII, n..70 e 71) e Internationale Presse Korrespondenz (anno VIII, nn.71/73).

Luigi Longo, segretario della FGCI, non parlerà a Basilea, perchè gli fu richiesto esplicitamente dalla segreteria del partito, nonostante il dibattito si rivelasse ricco, libero e articolato, alla luce del sole e senza infingimenti o falsi unanimismi, com'era proprio del periodo 1929/30; ma riaffermerà con forza le sue posizioni al Comitato Centrale del giugno successivo.  Longo e Secchia, in realtà, insieme a gran parte dell'organizzazione giovanile comunista,  lungi dal non porsi compiutamente il problema "della gestione politica" nel passaggio fascismo - capitalismo-insurrezione, ritenevano deleterio ogni atteggiamento "attesista", per il rischio concreto che l'attendere i 'tempi giusti' e 'maturi',  potesse dare al fascismo il tempo di riorganizzarsi per rispondere alla crisi di legittimazione popolare effettiva, al di là della retorica di facciata.

Il Partito Comunista doveva ri-adeguare la sua azione alle mutate condizioni oggettive, di fronte cioè alla depressione e al malcontento diffuso di ampi strati operai, doveva esaltare i suoi compiti nell'organizzazione del malcontento tramite le avanguardie coscienti, non defilarsi rispetto al sentimento delle masse, pur ancora confuso e di carattere spontaneo.

"Di qui - ha scritto E.Collotti - la tendenza a intravedere le possibilità di una radicalizzazione della situazione e dello scontro di classe, la valutazione dell'insufficienza di parole d'ordine democratiche, la valutazione altresì della parzialità della scelta dell'azione "illegale" attraverso le vie "legali" (lavoro di massa nelle organizzazioni fasciste, cattoliche e via dicendo). Ora, alla Conferenza di Basilea, Secchia in particolare, ma non lui soltanto, aveva portato in discussione un problema che non era soltanto di metodo della lotta politica, ma che in prospettiva indicava un modo diverso di intendere l'esoerienza del fascismo e il modo di rapportarsi ad essa. Vale a dire, non il problema del terrorismo, come pure con qualche semplificazione è stato detto, ma dell'uso della lotta armata, in determinate circostanze, contro il fascismo." [10]

Ed è mentre si svolge questo confronto politico, da cui ovviamente scaturivano conseguenze diverse per l'applicazione di strategie e  forme organizzative più coerenti di lotta al fascismo, che si inseriscono le analisi e le parole d'ordine dell'Internazionale: il VI Congresso del Comintern, che si tiene dal luglio al settembre 1928, pone come base analitica la categoria di "fascistizzazione della socialdemocrazia" e della dura battaglia da intraprendere contro l'opportunismo che, con il riformismo, rischia di penetrare nelle fila del movimento operaio: la lotta contro la socialdemocrazia e il fascismo diventa, per i comunisti, tutt'uno. Le indicazioni cominterniste saranno confermate al X Plenum nel luglio 1929 e saranno il punto di riferimento di quei giovani comunisti, come Secchia, Longo e Scoccimarro, che trarranno forza e vigore per l'affermazione delle loro tesi. Tesi che ben si innestavano sui capisaldi dell'analisi cominternista, sulla fine del periodo di relativa stabilità del capitalismo, sul rapido evolversi di una crisi economica e politica, sull'aggravarsi del pericolo di una nuova guerra mondiale. Ciò portava la naturale conseguenza che non la limitazione dell'attività politica in Italia, ma, anzi,  solo la necessità di operare con maggiore slancio e con una continua presenza nel paese,  per stimolare e dirigere l'azione delle masse lavoratrici (formazione e sviluppo del Centro interno), avrebbe contribuito ad accelerare l'abbattimento della dittatura fascista. Era palese, insomma, "l'insoddisfazione che su una linea di sinistra un settore del PCd'I, individuabile nella FGCI, e per essa Secchia ma anche Longo, che era già passato nel gruppo dirigente del partito (dopo la II conferenza della FGCI segretario infatti ne era stato nominato Secchia, ndr.) andava da anni manifestando in direzione di una maggiore presenza del partito nel paese. Questa posizione muoveva da alcuni elementi di analisi, non era cioè il risultato di una pura visione pragmatica (..) Il dissenso quindi non era soltanto di metodo (..) esso implicava scelte strategiche, e non soltanto tattiche, divergenti."[11]

Nella testimonianza posteriore di Secchia (cfr. L'azione, cit. , pag.490),  egli rivendicherà la piena autonomia di giudizio rispetto al Comintern, proprio in riferimento al dibattito interno e alla natura del partito italiano, nato in contrapposizione alla cultura riformistica:

 "Quella politica che porta un nome fortunoso, in realtà non fu decisa nel settembre 1929 o nel gennaio 1930 - anche se quelle date segnarono delle pietre miliari - fu decisa nel momento in cui il PCI sorse ed ebbe la sua piena riconferma nel novembre 1926, quando il PCI rifiutò di dissolversi ". 

Ciò che maturò allora, fu la drammatica consapevolezza che solo una lotta 'illegale' e organizzata militarmente, poteva dire la parola fine al fascismo:

"Ciò che in quegli anni fu conquistato non andò più perduto; la forza del movimento comunista radicatosi in Italia sarà dimostrata dalla capacità acquisita da molte organizzazioni di funzionare autonomamente senza bisogno dello stimolo e della guida continua dall'alto, dal crearsi di centri sia all'interno del paese che nelle isole di confino che si proponevano di collegarsi con le province e le regioni e con le altre forze antifasciste operanti in Italia, riuscendo ad assolvere ad un'effettiva funzione dirigente." (ivi, pag.492).

 

Dunque, per Secchia, furono proprio queste le basi che fecero dei comunisti l'anima attiva e d'avanguardia della Resistenza, giudizio condiviso in pieno anche da Luigi Longo e rivendicato posteriormente.

da Luigi Longo: I centri dirigenti del PCI nella Resistenza,

Roma, 1973, p.10.

 

" I partiti, i movimenti politici tradizionali, che erano scomparsi nel gorgo del ventennio nero, riemergevano per iniziativa di vecchi militanti e personalità che l'ondata fascista non aveva travolto o per iniziativa di giovani che si richiamavano a valori ed insegnamenti del passato.

Noi comunisti raccoglievamo nella nuova situazione i frutti della dura cospirazione e del lavoro clandestino svolto per vent'anni sotto la dittatura fascista. In quel lungo periodo si erano maturati, temprati ideologicamente e politicamente, nel paese, nelle fabbriche, nelle carceri e nei luoghi di deportazione o in esilio, solidi nuclei di compagni che lo studio e il lavoro illegale avevano preparato ai compiti dell'auspicato e previsto 'post-fascismo'. Anche se le forme e i modi in cui si giunse a questo sbocco furono tanto diversi da quelli immaginati in carcere, ciò non tolse che i comunisti, appena usciti dai luoghi di detenzione o rientrati dall'esilio, e quelli che erano rimasti in libertà in Italia, si ritrovassero insieme, anche se con qualche sfasatura politica, pronti a riprendere in pieno la loro attività di militanti."

 

Chi invece modificò il suo atteggiamento, in sostanza, fu Palmiro Togliatti ('Ercoli'), che dopo il Plenum del '29 del Comintern,  sembrò orientarsi diversamente rispetto alle posizioni espresse a Basilea insieme a Ruggero Grieco e Angelo Tasca , anche se non con la stessa convinzione che, in profonda connessione con i giovani dirigenti della FGCI, animava le organizzazioni di base operanti in Italia e l'intero corpo dei militanti: è interessante riportare l'inquadramento storico della riunione che Secchia ha ricostruito nel suo 'Promemoria autobiografico':

"Tra il CC di marzo e quello di giugno 1930, e cioè nel corso della lotta contro i tre, una delegazione del PCI si recò a Mosca, composta da Togliatti, Frausin e da me per la maggioranza, da Ravazzoli per la minoranza e da Gigante, che era assai influenzato dai tre anche se non condivideva le loro impostazioni (aveva una linea intermedia, più che una linea degli atteggiamenti che allora si aveva tendenza a definire "conciliatori"). A Mosca c'era anche Grieco che rappresentava il Partito nel Presidium dell'IC. Gli organismi dirigenti dell'IC volevano conoscere ciò che stava succedendo negli organismi dirigenti del partito italiano. La commissione dove si svolse la discussione era presediuta da Manuil'skij; ne facevano parte, oltre a noi, Pjatniskij, Vassil'ev, Stepanov ed altri, forse Kuusinen. La discussione era molto vivace. Pjatniskij e Vassil'ev appoggiavano senza riserve la politica del PCI. Manuil'skij voleva vederci chiaro, mi sembra avesse l'impressione che si fosse proceduto troppo rapidamente e drasticamente e che al fondo dovessero esserci altre questioni. I dirigenti dell'IC e del PCUS erano rimasti impressionati che di colpo metà dell'UP del PCI si fosse rivelato in pieno disaccordo con la linea politica del partito ed impressionati anche dalle accuse che i tre facevano che Togliatti avesse portato la lotta così a fondo contro di loro per fare "dimenticare" il suo opportunismo, nel senso che essi accusavano lui di essere il vero responsabile delle posizioni opportuniste, di destra, che erano state assunte a suo tempo da Tasca. Comunque la discussione terminò con l'approvazione da parte dell'organismo dirigente dell'IC della linea politica del PCI e coll'impegno di Ravazzoli a riconoscere i suoi errori ed a lavorare per applicare la linea del partito, impegno che però dopo non mantenne." [12]

Per i giovani comunisti bisognava porre in primo piano il problema dell'armamento delle masse, organizzare il lavoro clandestino per l'insurrezione, evitare che posizioni attendiste, in quanto politicamente e culturalmente opportunistiche, danneggiassero la necessaria, assolutamente necessaria compattezza del Partito Comunista:

 "La necessità e l'urgenza di realizzare una 'svolta' (più precisamente, di ricostruire un centro di direzione in Italia, spostando l'asse di attività all'interno del paese) per fare fronte allo sviluppo degli avvenimenti, si scontrò con una opposizione tenace che, riaprendo il dibattito sulle gravi perdite subite e sugli errori compiuti nel 1927, investiva l'intera linea politica e la funzione stessa del partito. Nella discussione e nella lotta aspra che ne seguì si opponevano due posizioni pratiche nettamente contrastanti: quella di limitare l'attività in Italia (accentuandola semmai all'estero, tra l'emigrazione) per lavorare a minor costo e quindi durare a lungo, e quella che poneva invece la necessità di operare in Italia con maggiore slancio e con una continua presenza per stimolare e dirigere l'azione delle masse lavoratrici, contribuendo così ad accelerare l'abbattimento della dittatura fascista." [13]

In questo modo si spiegano i fatti successivi, dolorosi, in quel momento storico inevitabili, piuttosto che con la frustra accusa di prono servilismo a Mosca: nel Comitato centrale del settembre 1929 fu decisa  l'espulsione di Tasca, che riteneva appunto la fase  difensiva e negava le opportunità offensive [14], a cui fecero seguito l'espulsione di Bordiga nella sessione del CC del marzo 1930, il più critico delle posizioni cominterniste e nel Comitato centrale allargato del 9 giugno 1930, l'espulsione di Leonetti, Tresso e Ravazzoli, accusati non solo di posizioni "trotzkiste", ma di ambiguità ed ondeggiamenti proprio in relazione al dibattito politico sulla 'svolta' e della sua traducibilità in termini organizzativi; di lì a poco  seguirono le dimissioni di Ignazio Silone. Gli espulsi si appellarono curiosamente proprio al voto espresso da Secchia, che, a loro parere, non ne avrebbe avuto diritto in quanto rappresentante della FGCI:  ma la decisione fu unanime e, condivisibile o meno posteriormente, significò l'egemonia nel PCd'I di allora del giovane gruppo dirigente che darà prova di sé nella lotta armata della guerra di Spagna nel 1936/39 e nella Resistenza antifascista (vedi Allegato A). 

 

ALLEGATO A

 

P. SECCHIA: dal rapporto tenuto a Livorno il 10 luglio 1971, nel corso di un convegno promosso dal Comitato per il 50° del PCI sul tema "Le giovani generazioni nella storia del Partito".

 

" (..) Personalmente sono sempre dell'opinione che, indipendentemente dalle analisi e dalle prospettive dell'Internazionale Comunista, dimostratesi giuste solo in parte, noi in Italia avremmo dovuto compiere ugualmente la 'svolta' se volevamo salvare il Partito e il suo avvenire. Se fossimo rimasti durante 15 anni a operare soltanto o prevalentemente all'estero, non saremmo il partito che siamo oggi. (..)

Il grande valore della 'svolta' non consistette soltanto nel fatto che il PCI e la Federazione giovanile riuscirono a essere fisicamente presenti con molti militanti e quadri dirigenti attivi in Italia, ma anche nell'aver fatto conquistare a tutto il Partito e alla gioventù comunista alcune posizioni ideologiche e politiche che non si sarebbero più perdute: in primo luogo, la persuasione che le situazioni non si creano spontaneamente, da sole, che il fascismo non sarebbe caduto come cade una mela matura, che non sarebbe stato sufficiente attendere . Anche allora, come durante la Guerra di Liberazione e dopo, fummo decisamente contrari a ogni forma di 'attesismo'. Non si attende l'ora X, la si prepara. Le situazioni si preparano e si mutano soltanto con la lotta. (..)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Allegato B

La lotta della gioventù proletaria contro il fascismo, Teti ed., 1975

(in collaborazione con Sarah Latorre)

 

 

Esempi tratti dalla documentazione:

 

-uno sciopero di giovani alle officine Tosi di Legnano (MI) del luglio 1927, pag.56

 

I giovani operai delle officine Tosi di Legnano vivevano in una condizione di sfruttamento lavorativo, tale da far prendere posizione perfino ai fascisti che dalla pagine del loro settimanale “il carroccio” di Legnano, invitavano gli industriali ad avere un atteggiamento più  disponibile nei confronti degli operai, che lavoravano  per soli 2 lire a giorno.

Le cose non migliorarono, e quando il 24 Luglio 1927 la ditta decise di togliere agli operai il caroviveri, 150 giovani ,cioè tutta la maestranza giovanile, non si presentarono a lavoro e questo risvegliò gli animi anche degli operai più adulti che nel pomeriggio si unirono allo sciopero che durò tre giorni. Questo portò i suoi frutti, anche se minimi, gli operai tornarono a lavorare alle condizioni di prima e cioè senza la riduzione del caroviveri. I fascisti con sfacciata ipocrisia, durante lo sciopero appoggiarono a parole i lavoratori, mentre nei fatti aiutarono la polizia ad arrestare quelli che secondo loro erano i responsabili dello sciopero.

La camera del lavoro di Milano durante i tre giorni di sciopero aiutò gli operai anche finanziariamente. Gli arrestati furono quasi tutti rilasciati tranne  tre operai,  ritenuti  responsabili dello sciopero, condannati  dal Tribunale speciale.

 

 

-la resistenza alla fascistizzazione operata all’interno delle organizzazioni sportive della gioventù, pag.65

 

Dal 1927 in poi il regime fascista cercò in tutti modi di fascistizzare lo sport,  obbligando tutte  le società o associazioni sportive ad aderire al Dopo Lavoro fascista e al C.O.N.I , la federazione sportiva fascista. Le società sportive che rifiutarono tale imposizione vennero immediatamente sciolte. A Milano, Trieste, Torino e Livorno molte società sportive preferirono sciogliersi piuttosto che aderire alle organizzazioni fasciste.

La FGC d’I  si pose dapprima in totale antitesi a questa nuova disposizione del regime fascista,organizzando circoli di divertimento indipendenti,  usando come parola d’Ordine “Giovani operai, fuori dal dopo Lavoro!”. Ma dopo il Novembre 1926 quando vennero vietate ogni tipo di associazioni sportive, politiche ed economiche  che non fossero fasciste, le cose cambiarono totalmente, spingendo la FGC d’I a cambiare linea, capendo quanto fosse necessario invece, infiltrarsi nelle società sportive fasciste, organizzando i lavoratori e trascinando gli operai nella lotta di classe, nella lotta contro il regime fascista. Tutto questo usando le poche possibilità legali all’epoca concesse, conducendo un lavoro di disgregazione all’interno delle organizzazioni avversarie.

 -la lotta contro la riforma Gentile dentro le scuole e le Università, che a Torino vide in primo piano lo studente del liceo D’Azeglio, nell’aprile 1927 dicianovenne, Giancarlo Pajetta, pag.81

Nell’aprile 1927 i giovani studenti rivoluzionari di Torino, che già disturbavano il giornale “Goliardo Rosso” nelle università e in altri istituti scolastici, decisero di distribuire anche dei manifesti contro le nuove leggi fasciste. Il manifesto che sollecitava gli studenti  a ribellarsi al regime aderendo ai comitati di agitazione,  alleandosi  e sostenendo la  classe operaia nella riorganizzazione dei lavoratori, fu oggetto d’indagine da parte dei fascisti e grazie alla complicità di alcuni studenti  fedeli  al regime , lo studente Giancarlo Pajetta fu indicato quale autore  dei manifesti. Data la competenza giudiziaria della’accaduto, intervenne direttamente il Ministero che sospese il giovane Pajetta  per  tre anni dalla scuola. Dopo qualche tempo il compagno Pajetta venne arrestato insieme al giovane operaio  Giacomo Fiorini, accusati di aver distribuito  volantini agli operai dell’officina Saroglia di Torino. Furono condannati a 2 e 3 anni di carcere entrambi e a 3 anni di sorveglianza speciale.

 -le manifestazioni per il IV anniversario della morte di Lenin del 21 gennaio 1928, pag. 137

Il 21  Gennaio 1928 le vie di Milano e provincia  furono  tappezzate da annunci mortuari, tanto da suscitare la curiosità dei passanti:  quei  volantini  in stile funebre altro non erano  che manifesti affissi dai giovani comunisti per commemorare il 4° anniversario dalla morte di Lenin.

Il giorno prima la polizia fascista riuscì ad arrestare  gran parte dei giovani comunisti intenti a stampare i manifesti. Sicuri di aver risolto il problema,  le squadracce fasciste quella notte dormirono sugli allori senza aver fatto i conti con la tenacia e la volontà degli altri giovani compagni che durante la notte ristamparono tutti i manifesti e riuscirono a tappezzarne la città. Ai fascisti non restò altro che fare i soliti arresti a caso negli ambienti operai.

 le agitazioni dei contadini e l’organizzazione degli operai a Napoli nel giugno 1928

-la concezione dei rivoluzionari di professione come “tecnici della rivoluzione”, pp.167/168

Tra i condannati dal tribunale speciale, vi erano molti “rivoluzionari di professione”:  questi compagni altro non erano che funzionari del partito, che rinunciando alla loro vita sociale , si dedicarono esclusivamente alla causa del proletariato, cercando in tutti modi di apparire  normali cittadini agli occhi della comunità. Essi dedicavano la propria vita al lavoro politico, organizzativo, tecnico , e alla prigione. Tanto da essere temuti dai fascisti che cercarono in tutti i modi di scovarli e imprigionarli. Compagni esperti della rivoluzione dunque, incaricati dal partito a dirigere le lotte nelle regioni e nelle città d’Italia.

 e “dei duemila anni di galera distribuiti complessivamente a 450 giovani proletari, 366 anni e 10 mesi sono stati dati solo a questi 35 funzionari”, pag.169, come Altiero Spinelli, arrestato il 20 giugno 1927 in qualità di dirigente dell’organizzazione comunista della provincia di Milano e che al processo dell’aprile successivo, che gli costò la condanna a 17 anni e 6 mesi di carcere, affermò: “che diritto avete di interrogarmi? Io sono un comunista. Della mia attività politica, dunque,  rispondo solo davanti al mio partito”., pag.178

-il contrasto, non sempre a buon fine, alla continua opera di provocazione da parte della polizia, come nell’agosto del 1927, in provincia di Ravenna, , pag.188

Tra i sistemi di provocazione adottati dalle forze dell’ordine c’era anche quello di infiltrarsi spacciandosi per compagni. Questo sistema non riuscì quasi mai, ma in alcuni casi,  per la debolezza di alcuni compagni  o per la ben riuscita mimetizzazione  dell’infiltrato,  questo accadde. Uno di questi casi avvenne a Ravenna dove il Commissario Zecchino spacciandosi per un compagno riuscì a farsi dire dal segretario della federazione comunista il numero degli iscritti e i possibili simpatizzanti. Credendolo un fidato compagno il segretario invitò  il Commissario Zecchino ad una riunione, ignaro che ci sarebbe stata un retata e che tutti i partecipanti alla riunione sarebbero stati arrestati.

Per il Plebiscito del 24 marzo 1929: la propaganda della Concentrazione antifascista e quella del PCd’I e della FGCd’I – vedi P.Spriano, vol.II, cit., pp.204-205

 


 

[1] Cit. in P.Spriano, Storia del Partito comunista italiano-Gli anni della clandestinità, vol.II, Einaudi, 1976, pag.97.

 

[2] Ivi, pp.150/151.

[3] Cfr. P.Togliatti, La situazione in Italia e i compiti del PCI, articolo per La Correspondance Internationale, a.VIII, 28 giugno 1928, sta in Id. Opere (1926/1929), vol.II, Ed.Riuniti, 1975, pp.416/417.

[4] Così scrisse Luigi Longo nell’introduzione al testo:“La penetrazione fatta dalla Gioventù comunista nelle file delle organizzazioni avversarie e che ha portato alla eliminazione definitiva delle organizzazioni giovanili riformista e massimalista, alla conquista di strati importanti della Gioventù cattolica, prova che il problema della conquista della gioventù è visto integralmente e giustamente dalla Gioventù comunista. Questo problema poggia oggi sopra i due capisaldi seguenti: mobilitazione sempre più larga e organica della gioventù lavoratrice attorno alle formazioni rivoluzionarie di massa, e al Partito comunista; lotta per allargare e consolidare la nostra influenza tra gli strati di operai e contadini ancora sotto la influenza della Gioventù cattolica, accompagnata da una lotta a fondo contro la “conquista” fascista della gioventù.”, in La lotta della gioventù proletaria contro il fascismo, Teti, 1975,pag.17. Vedi anche Allegato B.

 

[5] Cfr. P.Secchia: Il Partito Comunista Italiano, voce dell'Enciclopedia dell'antifascismo e della Resistenza, Milano, 1968, sta anche in Id.: Chi sono i comunisti - Partito e masse nella vita nazionale (1948/1970), Mazzotta, 1977, pag. 45.

[6] Cit. in  P.Secchia: L'azione svolta dal Partito Comunista in Italia durante il fascismo (1926/1932), Annali, a.XI, Istituto G.G.Feltrinelli, 1969, Milano-1970, pp.112/113.

[7] Ivi, pag. 115/116.

[8] Le rivoluzioni non scoppiano spontaneamente e senza adeguata preparazione ed organizzazione: questo il cuore delle argomentazioni della Federazione giovanile: "Noi lottavamo contro 'la spontaneità', sostenevamo la necessità di preparare, organizzare gli scipoperi, i movimenti di massa, che se abbandonati alla 'spontaneità' non sarebbero mai scoppiati o non avrebbero avuto uno sviluppo, uno sbocco positivo. Si parlava invece della lotta armata, come se tale forma di lotta, certo più dura e difficile che non gli scioperi, potesse svilupparsi spontaneamente e divampare nel gran giorno del riscatto senza che vi fosse stata una preparazione, un orientamento ideologico, un'esperienza pratica." (ivi, pag.117)

[9] Cfr. G.Sapelli: L'analisi economica dei comunisti durante il fascismo - Antologia di scritti, Feltrinelli, 1978, pag.28.

[10] Cfr. Introduzione ad Archivio Secchia (1945/1973), Annali Feltrinelli a.XIX, 1978, Milano - 1979, pag. 25. Sulla discussione alla Conferenza si veda anche La seconda Conferenza del Partito Comunista d'Italia (Resoconto stenografico). La seconda Conferenza della FGCI (Resoconto sommario), Parigi 1928 (Milano, reprint, s.d.); I primi anni di vita del Partito Comunista Italiano. Documenti inediti dell'Archivio Angelo Tasca curati e presentati da Giuseppe Berti,  Annali dell'Istituto G.G. Feltrinelli a.VIII, Milano, 1966 e, sullo stesso, Pietro Secchia: Appunti e ricordi (l'Archivio Tasca sul PCI), in Critica marxista, a.V, maggio-giugno 1967, n.3, pp.100/138.

[11] Cfr. E.Collotti, cit., pag.30.

[12]  Cfr. Pietro Secchia, Archivio, op.cit., pag.160.

[13] Cfr. P.Secchia: Il Partito Comunista Italiano, cit., pp.46/47.

[14] Schematicamente, su tutto il dibattito e la documentazione relativa cfr. P.Spriano: Storia del Partito Comunista Italiano, op.cit., vol.II, in part. pp.210/261