Blog  Ferdinando Dubla 2007
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murales di Filippo Girardi
 

 

 

IL PARTITO DEI COMUNISTI: FORMAZIONE DEI QUADRI, LINEA DI MASSA E RADICAMENTO POPOLARE

 

Unità, diversita’e autonomia per il gramsciano ‘intellettuale collettivo’

 

(ferdinando dubla)

 Il movimento tellurico e gli smottamenti causati dalla prossima nascita del Partito Democratico in salsa italiana (una fusione ‘a freddo’ di ceti politici immarcescibili) stanno provocando un dibattito all’interno della sinistra alternativa e un necessario riposizionamento delle forze politiche  che si ispirano, o dicono di ispirarsi, alla tradizione del movimento operaio e socialista.

 All’interno di questo quadro in mutazione, la proposta del IV Congresso del PdCI, dare vita ad una Confederazione per rafforzare l’unità politica della sinistra e conservare nello stesso tempo l’autonomia di ogni organizzazione che ne entra a far parte, sembra l’unica strada praticabile per ridare centralità al mondo del lavoro e invertire la tendenza alla scissione, alla frantumazione, alla dispersione.

Unità e diversità, per i Comunisti Italiani, sono un binomio inscindibile: la necessità della fase è quella di opporsi con determinazione massima e fermezza all’eversione di una destra reazionaria e ultraliberista, all’offensiva neoclericale per la negazione dei diritti della modernità sociale, all’imperialismo guerrafondaio del gendarme globale, gli USA. Diversi non vuol dire differenti antropologicamente: la differenziazione è tutta politica e di cultura politica, affonda le sue radici nel concetto marxiano e gramsciano di ‘prassi’, la teoria e l’ideale che si fa pratica e azione nella società, con un comportamento esemplare che da Berlinguer abbiamo imparato dover essere di alto profilo etico. I comunisti non possono riprodurre comportamenti da ceto politico autoreferenziale  staccato dai bisogni sociali delle popolazioni, non possono consentire a se stessi di assaltare le postazioni di privilegio e di facile ricattabilità corruttiva per le speranze individuali di ambizione alle cariche, di sacrificare alla gloria personale la speranza collettiva. Sono quei comportamenti che hanno provocato la crisi della politica in Italia, un rapporto malato tra società politica e società civile. E che riproduce il qualunquismo e l’indifferenziazione, su cui prospera la cultura di destra, la cultura del potere a tutti i costi, il privilegio economico, il parassitismo.

Ed è anche per questo che l’unità e la diversità vanno coniugate con l’indispensabile autonomia dei comunisti. Autonomia non è separazione, ma qualsiasi ricerca di slancio e afflato unitari ha necessità di salde radici per chi se ne fa promotore. I comunisti hanno una loro tradizione, una loro storia, una strutturazione ideale e di principi e valori aperta sempre al confronto e all’incontro, anche alla contaminazione, ma non disposta alla dissoluzione diventando, con linguaggio hegeliano, “altro da sé”.

Autonomia chiama in causa il radicamento popolare del partito dei comunisti. C’è chi li vuole folcloristici e testimoniali, un gruppo settario dedito allo studio della distillazione teorica senza incidenza e senza influenza.

Una cosa è il gramsciano 'spirito di parte', l'orgogliosa appartenenza, altra il settarismo, il sempre comodo integralismo di fazione, l’incapacità di contare nella società e di influenzare, condizionare positivamente il quadro politico per giocare in campo aperto la partita dell’egemonia.

 

Combattere il dommatismo e il settarismo è però l’altra faccia di un’altra battaglia: quella contro l’opportunismo e la subalternità compatibilista. E’ nella tradizione del PCI la battaglia su questi due fronti, che specularmene si sostengono l’un l’altro.

Sia i settari e dogmatici, infatti (quelli che per conservare una presunta ‘purezza’ vorrebbero rinchiudere la cultura politica comunista in un museo delle cere) sia i carrieristi e opportunisti, passano tutte le stagioni politiche allo stesso modo: nel guado dell'inazione e della passività, dirigendo le vuote trincee senza soldati, scorgendo semmai il nemico nella stessa trincea, concependo il proprio ruolo dirigente come censorio e inquisitorio, forti di una perorazione insussistente di una linea politica di cui si sentono vestali e che pure svuotano di incidenza, difensori di una rivoluzione senza rivoluzione, quella che si accomoda all'esistente perché è un vuoto involucro senza sostanza; quelli che spendono la loro presunta 'professionalità rivoluzionaria'  tutta insieme, alla vigilia delle elezioni, alla ricerca di onori e cariche, quelli che non sentono, chissà perché, il peso massiccio dei tanti incarichi accumulati e che non ne lasciano uno che sia uno, a meno che non  venga costretto a scegliere fra i fedeli fidati il suo sostituto, nel giuoco delle cooptazioni  e dell'autoreferenzialità all'infinito. 

 

  • Lotte e governo, movimenti vertenziali e conquiste

L’autonomia, così come l’esigenza unitaria e la diversità, ha bisogno di un partito di lotta e di governo, formula già sperimentata in passato, ma forse mai praticata per davvero, anche per le oggettive difficoltà di coniugare correttamente le due dimensioni senza una corretta analisi di fase.

 Non è possibile nessuna seria conquista, per il mondo del lavoro, i ceti subalterni, le masse popolari, senza un movimento di lotta. Siamo marxisti e concepiamo la storia come storia di lotte di classe, perché concepiamo il conflitto sociale motore dello sviluppo storico. Ma cerchiamo anche un’efficacia dell’azione politica: ma davvero la classe operaia, di vecchia o di nuova generazione, l’esercito dei precari a vita, i senza-diritti del capitale globalizzato, è indifferente ai risultati che si possono ottenere con il lavoro nelle istituzioni, negli organismi elettivi, nella compagine governativa? L’esperienza di tutti i giorni è diversa e addirittura opposta a questa concezione: e noi abbiamo imparato che meno ricattabili sono i lavoratori più forti sono i sindacati e il partito comunista, non viceversa.

Non siamo mai stati ammaliati dall’apologetica del ‘movimento dei movimenti’, preferiamo parlare di ‘movimenti vertenziali’ diffusi nei luoghi di lavoro e nei territori, e in tutti i punti di crisi del capitale; e sappiamo che queste vertenze diffuse vanno ricondotte ad unità, ad una visione complessiva, che ne induca la soluzione radicale e non superficiale. E’ il compito, modernissimo, dei comunisti oggi, ricondurre ad unità la frammentazione della classe, speculare all’unità politica della sinistra nel nostro paese. Le conquiste, pur parziali, se vanno in questa direzione, sono conquiste necessarie per i lavoratori e spostano i rapporti di forza su un terreno più favorevole – una moderna ‘democrazia progressiva’. Ma il partito dei comunisti deve attrezzarsi per questa sfida, viverla senza schizofrenia né timore, perché le alternative sono: o lo sterile movimentismo senza efficacia, che talvolta si traveste grottescamente da dottrinarismo iperideologico e ‘sotto-vuoto’ o, più allegramente con sofisticherie e arzigogoli linguistici vuoti e negativamente retorici; oppure il governismo e l’appiattimento istituzionale, come tutti gli altri, affatto diversi, non più comunisti.

I comunisti, invece, lottano apertamente per il socialismo e hanno compreso dalla loro stessa storia che il socialismo non è una linea d’orizzonte mai raggiungibile, ma vive nella pratica quotidiana della loro azione politica. E l’azione deve essere pulita, trasparente, coerente in tutti i comportamenti.

Ecco perché la proposta della Confederazione della sinistra deve porre al centro l’autonomia dei comunisti, che significa non meno, ma più capacità di radicamento di massa, con una linea politica di massa, con la formazione permanente di quadri e militanti attivi per contrastare la tendenza alla delega, al verticismo, alla separazione, per favorire la partecipazione cosciente delle donne e degli uomini alla costruzione del loro stesso destino.

 

L'esperienza storica del movimento operaio del XX secolo, altro che l'ossessione delle rovine che la borghesia imperialista sbandiera per delegittimare ogni antagonismo strutturale al sistema,  ha consegnato, a noi comunisti soprattutto, un utile e prezioso patrimonio di riflessione; abbiamo subito in questi anni invece, soprattutto per la deriva dei DS, ma anche per il baloccarsi, nella definizione di linee politiche e valori ri-fondanti, con giochi intellettualistici senza reale spessore del Prc, (1) la tendenza alla vera e propria rimozione dell'esperienza, la quale, se non viene agita nel presente, diventa o pentimento e ‘colpa originaria’ da cui mondarsi, o pretesto per analisi inconcludenti che assemblano categorie concettuali e mirano alla cancellazione effettiva del marxismo non alla sua rigenerazione;  ed il pericolo, mortale, può essere consegnare la nostra straordinaria memoria ed esperienza storica a una sterile testimonianza, come un reperto museale nemmeno destinato alla visione del pubblico.

Ed è questo compito che definisce la necessità di una mirata politica dei quadri. I quali si formano, vengono formati, si autoistruiscono attraverso una militanza attiva, con la partecipazione convinta e motivata alle battaglie sul territorio a cui viene legato un respiro più grande, quello della lotta alle contraddizioni della società capitalista e alle conseguenze sociali dell’imperialismo guerrafondaio e rapinatore.

 

Antonio Gramsci ha scritto, nell’”Ordine Nuovo” del 1 aprile 1925:

“Siamo una organizzazione di lotte, e nelle nostre fila si studia per accrescere, per affinare le capacità di lotta dei singoli e di tutta l’organizzazione, per comprendere meglio quali sono le posizioni del nemico e le nostre, per poter meglio adeguare ad esse la nostra azione di ogni giorno. Studio e cultura non sono per noi altro che coscienza teorica dei nostri fini immediati e supremi, e del modo come potremo riuscire a tradurli in atto.

Fino a qual punto questa coscienza oggi esiste nel nostro partito, è diffuso nelle sue fila, è penetrata nei compagni che ricoprono funzioni di direzione e nei semplici militanti che devono portare quotidianamente a contatto con le masse le parole del partito, rendere efficaci i suoi ordini, realizzare le sue direttive? Non ancora, crediamo noi, nella misura necessaria a renderci adatti a compiere in pieno il nostro lavoro di giuda del proletariato. La scuola di partito deve proporsi di colmare il vuoto che esiste tra quello che dovrebbe essere e quello che è. Essa è quindi strettamente collegata con un movimento di forze, che noi abbiamo diritto di considerare come le migliori che la classe operaia italiana ha espresso dal suo seno. E’ l’avanguardia del proletariato, la quale forma e istruisce i suoi quadri, che aggiunge un’arma – la sua coscienza teorica e la dottrina rivoluzionaria – a quelle con le quali essa si appresta ad affrontare i suoi nemici o le sue battaglie. Senza quest’arma il partito non esiste, e senza partito nessuna vittoria è possibile.”

 

  • Il tema centrale della formazione dei quadri: scuola di partito e/o partito come scuola

 

Nel PCI uscito dalla clandestinità, la politica di massa del 'partito nuovo' e la linea della 'democrazia progressiva'  doveva riuscire a coniugare la quantità con la qualità.  Tant'è che lo stesso Togliatti dovette sottolineare poi, nella Conferenza d'organizzazione di Firenze del 1947, l'aspetto rilevante che aveva la politica di formazione dei quadri  nel momento stesso di un'accentuata necessità di consolidare una struttura di massa ( allora il PCI raggiunse e negli anni seguenti addirittura aumentò, la quota di due milioni di iscritti). Insomma, proprio perché il radicamento popolare si faceva più forte, bisognava curare l'aspetto qualitativo della militanza e potenziare la coscienza di classe. 

Il partito come strumento di emancipazione costante del proletariato, un partito che si modifica interpretando correttamente la realtà e le sue incessanti trasformazioni, ma che non perde mai la bussola dei suoi principi fondanti (in un corretto rapporto tattica/strategia),  perché, oltre la sua ragion d'essere, la sua identità, così perderebbe sia il ruolo di scuola formativa, nel senso pedagogico gramsciano dell’autoistruzione dell’’intellettuale collettivo’ [nel partito si organizzano le lotte, ci si confronta, si impara insieme e si cresce insieme - così oggi va interpretata e vissuta anche la categoria leninista di avanguardia cosciente] sia il fascino dei suoi ideali di superamento dello 'stato delle cose esistente', e cioè della barbarie capitalista. 

Per un comunista, i significanti forti rimandano a forti significati: anche le parole sono pietre.

Il linguaggio è dominio ed è un canale, anche potente, di egemonia delle classi dirigenti nei confronti delle classi subalterne. Dare senso e significato alle parole, ripristinare un’igiene linguistica: lavorare per una prospettiva, non ha mai significato massimalismo ideologico; non ci interessa l'articolo di fede, ma perché l'anticapitalismo non torna ad essere indicato positivamente, come socialismo, magari come processo e non sistema, ma socialismo? Perché sinistra radicale e non sinistra d’alternativa, liberismo e non “gli interessi padronali”, globalizzazione economica e non disuguaglianza globale, missioni di pace, umanitarie, ‘peacekeeping’, esportazione della democrazia e non guerra imperialista?

  • Un partito comunista giovane, in quantità e qualità:  giovane e moderno in tutti i sensi.  Ma proprio per questo, ancora più ancorato alla memoria storica, come veicolo continuo e prezioso di bilancio delle esperienze del movimento operaio, nazionale e internazionale, e dei comunisti in particolare.

Se noi dunque non curiamo l'aspetto della formazione degli stessi militanti, se non miriamo al rafforzamento della memoria storica che ci ha generato e può farci sviluppare nel futuro prossimo, se noi non rendiamo lo strumento-partito anche una delle agenzie di formazione (delle giovani generazioni, soprattutto) che, in modo aggregante e nella forma del laboratorio di ricerca continua ('intellettuale collettivo' è concetto che rimanda alla potenza dell'ideologia come materialità)  sia fonte preziosa ed inesauribile di sviluppo dello spirito critico nei confronti di tutte le agenzie di formazione falsamente pluralistiche della società in cui dominano gli oligopoli mass-mediologici pubblici e privati,  e conseguentemente  sviluppi   anticorpi che non ci isolino dalla società, anzi,  entrino in sintonia con le condizioni materiali di vita quotidiana di larghe, larghissime masse popolari,  ebbene, noi rischiamo di perdere le sfide che abbiamo dinanzi.  

Il carrierismo/opportunismo, proprio perché tale, è capace di adattarsi a tutte le linee politiche, ma con un unico risultato: l'inazione, l'inattività, la passività, l'ingabbiamento sterile delle energie. Non tutte le linee politiche sono uguali, è ovvio: ma è sempre necessaria la verifica concreta, l’analisi attenta dei risultati raggiunti, la congruenza delle pratiche, dei percorsi, rispetto agli obiettivi.

E' necessario quindi, che a livello nazionale e decentrato nelle istanze federali, vi sia chi si occupi autonomamente di curare il settore della formazione-quadri e questo deve essere il terreno privilegiato, insieme all'infaticabile necessità di essere dentro le lotte e riconoscibili socialmente - in quanto riconosciuti dalle masse, dell'impegno dei comunisti .

 

Il centralismo democratico è un metodo, ma come risultato, oltre la coesione, deve avere l’autodiciplina con il fine dell’unità della classe.

E nella migliore tradizione comunista, i quadri principalmente si autoformano nelle vertenzialità diffuse, nelle battaglie concrete per difendere e sostenere i bisogni delle masse, oltre che, naturalmente, con lo studio sistematico di  un bagaglio storico/culturale che sia in grado di trasmettere la memoria, la faccia vivere e palpitare nel presente, la renda attuale permettendole di respirare l'aria della contemporaneità: e nella formazione di un comunista, l'eloquio retorico (in senso positivo, la retorica è una delle arti classiche più antiche e nobili) è solo un aspetto della propria caratterizzazione, da usare preferibilmente per abbattere i deteriori sensi comuni che la borghesia, come classe dominante, rende dominanti nel corpo sociale, da utilizzare meno tra la comunità dei comunisti, comunità 'fraterna' per antonomasia, dove il comunismo è anche uno stile di vita e non una mera perorazione astratta da utilizzare nei gran galà delle riunioni interne o nei comizi domenicali.

Per noi che siamo comunisti e non ‘sinistri radicali’ il cimento dell’oggi è duro, ma ci confortano le asprezze  e le tragiche sofferenze di chi, prima e meglio di noi, per questo nome e per l’ideale del socialismo, ha patito discriminazioni, emarginazioni, torture, sino al sacrificio della vita, come nella Resistenza antifascista.

 

Concetto Marchesi, sull’Unità del 20 gennaio 1952:

“Un saggio ministro diceva a un giovane incrudelito imperatore romano: ‘Per quanti avversari tu possa uccidere, non ucciderai mai il tuo successore’. Questo impazzito imperialismo capitalistico, per quanti strumenti di rovina possa accumulare nei cantieri della morte, non distruggerà mai il suo successore, che oggi ha un nome solo: socialismo.”

Non ci sarà mai socialismo senza un grande partito comunista.

 

fe.d., intervento letto nelle assisi per il IV Congresso del PdCI, 27_29 aprile 2007

 

(1) del suo segretario, soprattutto, oggi Presidente della Camera, che ha trascinato il progetto della rifondazione in un tunnel senza uscita, passando per schemi concettuali astratti sul terreno della politica (‘svolta o rottura’, l’’evento’, il partito-movimento a rete, la desistenza, una astorica ‘destanilizzazione’ che nascondeva il ripudio di tutta la tradizione e la lotta di corrente, la ‘Sinistra Europea’ senza comunismo e comunisti, fino all’odierno collateralismo governativo e i movimenti tacciati di ‘antipolitica’. Troppe contraddizioni anche per l’alfiere dell’ossimoro.

 

fe.d., intervento letto nelle assisi per il IV Congresso del PdCI, 27_29 aprile 2007

 

 

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